View Colofon
- "Outra Cidade" translated to PT by Stepanka Lichtblau,
- "Obce miasto" translated to PL by Agata Wróbel,
- "Una ciudad ajena" translated to ES by Daniel Ordóñez Franco,
- "Tudi grad" translated to SR by Uroš Nikolić,
- "Orașul străin" translated to RO by Mircea Dan Duță,
- "Een wildvreemde stad" translated to NL by Annette Manni,
- "Tuje mesto" translated to SL by Vesna Dragar,
Maria Gaia Belli
Una città sconosciuta
L'autunno era alle porte, Amsterdam appariva variopinta e volubile. Pioggia e sole si alternavano di continuo, e poi da capo, come le avemmarie nel rosario. Mi trovavo sotto un ponte, in attesa che finisse uno dei tanti temporali estivi. Avevo in programma una gita in bicicletta nei dintorni di Amsterdam. Volevo vedere i rinomati polder, i canali che attraversano in ogni direzione quei prati di colore verde vivo, dominati da mulini a vento, che stendono le loro braccia nei campi come spaventapasseri. Era la mia prima gita in quella nuova città, la prima esperienza che avrebbe dato in qualche modo inizio all'amicizia tra me e quel luogo. Quel paese rinomato per la sua architettura all'avanguardia, dove avevo deciso di stabilirmi per qualche tempo.
Avevo trovato un impiego nello studio di architettura SeArch, famoso per i suoi metodi di progettazione innovativi, ideale che anche il nome lascia trasparire. Mi interessava il loro modo di lavorare con transmateriali ed elementi costruttivi che includevano hardware, software o componenti elettronici. Ero interessata ai progetti basati su metodi di costruzione inconsueti. Tra i lavori più noti di questo studio architettonico c'è la casa familiare Villa Vals, incastonata in un pendio delle Alpi svizzere, che ricorda un cratere generato da un meteorite oppure un satellite luminoso che di giorno riceve la luce e di notte la irradia all'esterno. Grazie a loro ho avuto la possibilità di partecipare al concorso per la realizzazione di un nuovo museo, la cui facciata doveva essere costruita con pannelli mobili in plastica e alluminio, sensibili alla luce del sole e al calore umano. Ho avuto inoltre l'opportunità di studiare un nuovo metodo per la progettazione degli edifici amministrativi, oppure di ragionare sul modo in cui lo spazio interno di una sinagoga potesse proiettarsi all'esterno dell'edificio. I progetti erano uno più interessante dell'altro e la cosa più bella era che i clienti olandesi esigevano questo genere di architettura, per loro era una cosa assolutamente normale, come i reportage che trasmettevano ogni sera al telegiornale sugli atelier giovani e promettenti.
Avevo un lavoro, ma non avevo ancora trovato una sistemazione. In quanto ad alloggi, Amsterdam è rinomata per la grande domanda e l'offerta terribilmente limitata. Avevo la possibilità di rimanere ancora per qualche giorno nell'appartamento della nipote di Rein Geurtsen, architetto e urbanista di Delft, che ogni tanto teneva a Praga dei seminari alla facoltà di architettura. Era il tipico appartamento olandese con una finestra grande come una vetrina, che dava sulla strada. Tirare le tende non aveva senso, perché la finestra era l'unica fonte di luce in quello spazio stretto e profondo, avvolto nella penombra dalla mattina alla sera. Così anch'io ero diventata parte della strada e ogni tanto si posavano su di me gli sguardi vaganti dei passanti che, andando a passeggio per la città, cercavano un qualunque stimolo visivo. Era un luogo molto più accogliente della minuscola stanza dell'ostello con le pareti dipinte dalla muffa e con la moquette che inzuppava allegramente d'acqua i calzini. I quadri astratti delle pareti, che avrebbero reso felice perfino Boudník, erano generati dall'umidità onnipresente alla quale era impossibile sfuggire in quell'intima vicinanza ai canali.
Allo stesso tempo era impossibile sottrarsi a quelle nuvole nevrotiche, che rovesciavano di continuo a terra scrosci inaspettati. Ero partita per la mia gita, ero riuscita a stento a nascondermi un paio di volte sotto un ponte, ma alla fine avevo preso la pioggia e mi ero bagnata fino alle ossa. Tornare indietro non aveva senso, quindi avevo continuato il mio percorso tra gli houseboats galleggianti e le strette case in mattoni, che ondeggiavano come le illustrazioni di un libro per bambini. Durante uno dei tanti acquazzoni, mi ero fermata sotto la tettoia di un dormitorio per studenti. «Non stai mica cercando una stanza?», mi aveva chiesto un ragazzo in inglese, prima ancora che io fossi riuscita a guardarmi intorno e a notare che l'edificio era un riuscito gioco di incastri di container abitabili. «Sì», avevo sentito risuonare la mia risposta, mentre il ragazzo mi stava già spiegando che nel dormitorio si era liberato un posto e che stavano cercando il sostituto più adatto. A tale scopo avevano organizzato per quella sera una festa. «Vieni?» «Sì.» «Great.» «See you.». Ottimo. Alle sei qui. Mi ero dimenticata così della gita che avevo programmato ed ero andata a cambiarmi, per ritornare poi lì un'ora più tardi.
Il dormitorio era un lungo corridoio scuro sul quale si affacciavano numerose porte che conducevano alle singole stanze, poi c'era una scalinata con bei disegni colorati e scritte realizzati con lo spray, che non avrebbero sfigurato su ponti o barriere antirumore. C'era la musica a palla e si sentiva odore di erba, come dappertutto in città nelle vicinanze dei coffe shop (locali dove si può reperire legalmente hashish e marijuana, anche se il nome non ci azzecca per nulla). Il ragazzo mi aveva riconosciuta e mi aveva spiegato le regole della festa d'appartamento: era necessario far colpo sul maggior numero possibile di inquilini, avrebbero deciso loro infatti chi dei nuovi arrivati sarebbe stato scelto per il posto di nuovo "affittuario". Mi ero guardata in giro, la festa era nel suo clou, ognuno aveva in mano una bevanda alcolica, quasi sempre una Heineken (di sicuro non all'altezza della birra ceca). Era semplice riconoscere gli aspiranti inquilini. Ridevano a voce più alta e parlavano molto. Le ragazze, con il rossetto rosso, ci provavano con gli olandesi smunti, mentre i ragazzi corteggiavano le fanciulle del posto. Era la tipica situazione che adorano gli introversi. Dopo essere stata in piedi in imbarazzo per un'ora, mi ero seduta in una poltrona nell'angolo e mi ero messa a osservare il brulichio, vedevo tutto sfumato, come in un quadro di Rembrandt. Dopo un po' ero sgattaiolata fuori diretta alla bicicletta e nessuno se n'era accorto. Mentre facevo ritorno alla mia sistemazione provvisoria, non aveva piovuto nemmeno una volta. Mi ero fermata su un ponte da cui si vedeva la baia. Dei brandelli di luce si rotolavano fiaccamente all'orizzonte, rimbalzando nei riflessi sulla superficie dell'acqua. Non vedevo l'ora di tornare ai polder nascosti in mezzo all'erba, che quel giorno non ero riuscita a vedere. Non vedevo l'ora di scrutare quel paesaggio che, con la sua piatta superficie infinita, si sarebbe proteso davanti a me come la pelle teneramente rugosa del palmo di una mano.
Dalla mattina alla sera ero al lavoro e non avevo tempo di cercare una sistemazione. Nel giro di una settimana avevo risposto a decine di annunci. Si era fatto vivo un iraniano dalla pelle scura. Avevo incontrato Mohammed per la prima volta all'Oosterpark, ai margini del reticolato del sistema di canali convergenti del centro storico. Mi aveva accompagnata nel suo appartamento, avvolto nella tipica penombra, situato in una casa dai mattoni rosso bruciato, con i telai delle finestre di colore bianco e una scala stretta e ripida. Ero stata accolta da una simpatica signora con un fazzoletto posato alla bell'e meglio sui capelli scuri e da tre bambini. Più tardi avrei scoperto che due dei tre bambini Mohammed li aveva avuti dalla prima moglie che era scappata in Iran. Non avevo voluto saperne il motivo. Mohammed stesso era arrivato in Olanda come forza lavoro a basso costo e vi era rimasto. Mi aveva fatto vedere una piccola stanza vuota, con una finestra che dava su un cortile scuro. «Ho qui questa stanza dotata di finestra», aveva detto, mentre i suoi piccoli occhi brillavano furbescamente. Dall'enfasi conferita alla parola finestra, mi ero resa conto che questo elemento costruttivo non era per nulla scontato nel centro di Amsterdam. Mi ero trasferita da quella famiglia musulmana nel bel mezzo della festa del Ramadan. Di giorno digiunavano e cenavano dopo il crepuscolo. Ero stata invitata a uno di questi banchetti notturni. A quanto pare, tra i principi del Ramadan, ce n'era uno che diceva di non lasciar morir di fame gli ospiti e gli stranieri. Il tavolo era ricoperto di piatti tipici iraniani, al centro c'era una collinetta con un ripieno, che assomigliava a una grande pagnotta. «Che cosa c'è all'interno?», avevo chiesto curiosa. «Una bomba!», aveva sparato prontamente Mohammed, con gli occhi che gli brillavano per la soddisfazione di aver fatto una battuta ben riuscita. Ci eravamo messi tutti a ridere. Poi avevamo mangiato, chiacchierato, guardato il telegiornale iraniano, che io non potevo capire. Se c'era un posto che avrei potuto chiamare casa in quel paese, era proprio quell'appartamento con le regole di un musulmano credente appese in corridoio accanto alla porta d'ingresso, e la stanza con la finestra che osservava almeno in parte quel cielo a momenti sereno, a momenti pieno di nuvole.
La mia città che non è più mia
«Ti compro il gelato», mi disse papà, quasi sicuro che così sarebbe riuscito a tirarmi fuori dall'appartamento. Voleva andare ad ascoltare le campane del Santuario di Loreto, ma non voleva andarci da solo. Non appena pronunciò la parola gelato, mi fiondai nell'ingresso a infilarmi le scarpe, che lui mi comprava sempre di un numero più grandi. Avevo nove anni. Erano passati tre anni dalla Rivoluzione di velluto e due anni dalla visita del papa. Era passato un anno dal funerale della nonna, durante il quale avevo visto papà piangere per la prima volta. Abitavamo in uno di quegli anonimi casermoni grigi nei quali il rumore dell'ascensore si espande per tutto l'edificio, come i gemiti del coito. Abitavamo in un appartamento di tre camere, che si affacciavano su un parco con i giochi per i bambini, e una cucina che dava su un cortile pieno di erbacce, con tre robusti noci e un appendi-tappeti arrugginito. Gli alberi del parco, con i rami bassi, sui quali ci si poteva arrampicare facilmente, e i segreti proibiti del cortile nascosto: questa è stata la mia infanzia alle porte di Hradčany. Fino a quando è arrivato quel giorno. Fino a quando si è verificato quel tragico momento di rottura: il trasloco.
Usciti dall'appartamento, facemmo una gara per vedere chi sarebbe arrivato giù per primo, se il papà in ascensore o io per le scale. L'ascensore iniziò a muoversi lento, ma prima ancora che arrivasse di sopra a prendere il papà, io ero già fuori davanti a casa e mi ero messa a scavare annoiata con un dito nell'intonaco grezzo. Sotto il sole mattutino, alcuni punti dell'intonaco luccicavano come madreperla. Solo il rumore della porta, che si era chiusa alle spalle del papà, mi aveva strappato dal microcosmo dell'intonaco, fatto di minuscole creste simili a montagne. Nella via trasversale passò il tram, stridendo delicatamente. Do diesis, fa diesis, la diesis, avrebbe detto la mia amica violinista, assegnando un nome alle note del tram. Magari era una battuta, ma chi non ha l'orecchio assoluto non potrà mai saperlo.
Forse all'epoca non ero più costretta a indossare le calze bianche e la gonna scozzese e a portare il taglio di capelli a scodella. Probabilmente avevo un taglio corto e sembravo un maschio, visto che avevo addosso i vestiti dei miei fratelli: una camicia di flanella e sotto una maglietta con un Sandokan sbiadito. Facevo apposta a camminare piano, restando dietro al papà perché non mi vedesse. Potevo godermi le pozzanghere che si erano conservate nelle irregolarità del marciapiede. Prima di schiacciarci dentro il piede, vedevo chiaramente le nuvole bianche rotolare al loro interno. Attraversammo i binari del tram, passando accanto all'edificio della Banda dell'Esercito della Repubblica Ceca, alle cui finestre i soldati oziavano come piumini al sole, e accanto alla mia vecchia scuola, il Liceo Kepler (dove si fuma erba come ovunque), per poi essere subito assorbiti da Pohořelec, con le sue basse case rinascimentali attaccate al convento di Strahov. Lo spazio digradante della piazza ci spinse in avanti, verso la chiesa con la scritta "Hotel" e l'originale fast food, lungo i portici schiacciati, accanto al palazzo Černín, butterato nella parte inferiore dalle sue bugne a punta di diamante e nella parte superiore dalla parata militare di colonne corinzie. Ed eccoci arrivati in Piazza Loreto. Ci infilammo tra la folla di persone che stavano aspettando i primi suoni del carillon di campane, in piedi davanti al barocco prorompente del Santuario di Loreto. Per un momento restai ad ascoltare, poi guardai il grasso sedere nudo di un angioletto di pietra e infine colsi l'occasione per bagnarmi i piedi nella pozzanghera più vicina, immersa nei miei pensieri.
Poco dopo le pozzanghere iniziarono a saltellare da sole, senza che io le avessi punzecchiate con il piede. L'aria si fece umida, la pioggia ombreggiò lo spazio e il sole scomparve, era come se qualcuno avesse gettato una coperta bagnata sulla mia città. Fummo costretti a rientrare. Non continuammo la passeggiata fino al castello e ai suoi cortili, passando accanto alle case contrassegnate dagli stemmi dei loro signori, alle lampade in ghisa con quattro ninfe, anch'esse in ghisa (che, non so perché, mi terrorizzavano), alle facciate dipinte fino alla noia con gli sgraffiti (anche se dipinte non è l'espressione giusta per indicare questi graffi ripetitivi nell'intonaco fresco), ai portali con i finti balconcini, alla Guardia del Castello (che all'epoca non era ancora così difficile far ridere), al Masaryk di bronzo (sotto il quale i miei fratelli suonavano le canzoni di Kryl, guadagnandosi i soldi per la Coca-Cola). E infine quello spettacolo imponente, con il quale la città si presentava e si offriva con il suo infinito gioco di costruzioni, di tetti, camini, ponti, torri e cupole. Come un lego gigante, con il quale sarebbe stato così bello giocare.
Sulla via di casa rimasi nuovamente indietro, ma questa volta non per mio volere. I passi del papà mi sfuggivano, scappavano dai marciapiedi strapieni di pozzanghere, dall'acqua che scorreva nelle grondaie, dalle facciate ricoperte di chiazze umide che sembravano mappe, dalla pioggia che la città stava interiorizzando. Mi aspettava soltanto agli attraversamenti pedonali. Il palazzo ci avvolse nel suo solito abbraccio asciutto che sapeva di stantio, nel cocktail di odori delle pietanze cucinate quel giorno per pranzo. A casa ci togliemmo i vestiti bagnati, affinché potessero farsi le coccole al posto nostro nella lavatrice. Avevo freddo per quel freddo inizio di primavera, del gelato nemmeno me ne ricordai. Mentre la lavatrice faceva le fusa, saltellando sulle piastrelle del bagno, osservai dalla finestra appannata i tetti sfocati, immaginando che là da dove eravamo venuti, ci fossero ancora molti posti segreti come un pozzo, profezie taciute degli umidi sotterranei, gengive erose dei blocchi di case, pietre angolari smussate. Solo che la città la pensava diversamente: era pietrificata dalla paura di perdere la propria dignità, sbatteva nevroticamente le palpebre osservando la circonvallazione che non era ancora aperta al traffico, iniziava ad avere dei complessi, di tipo amministrativo e commerciale, e le multinazionali avevano iniziato a spremerla in un modo tale che un giorno sarebbe rimasto soltanto un concentrato di amarezza. Ma all'epoca non sapevo ancora nulla di tutto ciò.
Quell'anno avevo compiuto nove anni. Mancavano undici anni ai miei studi di architettura (dove avrei imparato che le piccole pietre preziose nell'intonaco grezzo sono di mica), mancava un anno al rientro del mio fratello maggiore dal servizio militare (freddo ed estraneo, con il capo rasato, la cintura stretta in vita e lo sguardo vuoto), e quattro anni a quel momento decisivo: il trasloco. Il trasloco in periferia, dove la città si sfilaccia come un pezzo di stoffa a buon mercato. Misteriosi spazi vuoti, recintati da casseforme colorate, si alternavano a una periferia asessuata e all'ordine apparente delle case familiari.
Da bambino ti innamori di un posto e non lo abbandoni più, perché è lui a non abbandonare te. Mio papà ha negli occhi le campagne della Vysočina, con quelle dolci colline che si susseguono in lontananza, con i viali di meli selvatici e lo stagno, che ogni estate cambia identità. Sotto la pelle ha impresso l'odore della terra, delle foglie che marciscono e dell'umidità delle pareti in pietra. Le sue mani afferrano più volentieri di qualunque altra cosa la zappa e la legna da ardere ben asciutta. Non smette di tornare ai suoi ricordi, proprio come me che ho in testa la città con i tetti obliqui, dai quali, durante il disgelo, cade inaspettatamente la neve e ti costringe a indietreggiare per lo spavento. Ho impressi dentro di me i drammi dei rilievi in stucco, che vengono distrutti così facilmente dalla banalità dell'isolamento termico. Non mi abbandoneranno più né i sanpietrini traballanti, né la vista improvvisa di stradine strette e buie e nemmeno le scalinate ripide lungo le quali la pioggia precipita con un accanimento che ricorda l'acqua delle rapide in montagna. Rimarranno impressi dentro di me i quadri astratti dell'intonaco scalcinato e i cornicioni decorati con piume di piccione, le piazze rumorose con le pettinature delle loro facciate e il silenzio estatico delle chiese, dei conventi e delle biblioteche.
L'amore per una città è come la tosse che non vuole saperne di passare. E tu soffochi, soffochi per il desiderio di far ritorno alla tua città che non è più tua.