View Colofon
- "Het communisme gezien door de allerkleinsten" translated to NL by Jan Willem Bos,
- "El comunismo visto por los niños muy pequeños" translated to ES by Corina Oproae,
- "O Comunismo Visto por Criancinhas" translated to PT by Simion Doru Cristea,
Il comunismo visto dai bambini molto piccoli
Ho quattro anni e non sono mai salito oltre il primo piano. Sono convinto che il serpente azzurro della balaustra sia infinito, che salga, salga e salga, sfondi il soffitto di bitume del nostro palazzo e avanzi inosservato fino al cielo. È un pensiero che non condivido con nessuno. La paura si riscalda alla fiamma di questo pensiero.
Le persone scendono dai piani superiori, dal cielo, a volte parlano tra di loro bisbigliando e io non sento cosa si dicono. Ma non è mai un si lenzio fine a sé stesso. Non c'è mai calma.
Il vociare passa dall'uno all'altro. Sono come delle api o forse come delle mosche obese, che non si sa mai cosa possano nascondere. Ma non sono solo brusii tra la gente. Qualche volta e c'è questa buffa allegrezza. Gli uomini svuotano piccoli bicchieri. Io immagino che nei piccoli bicchieri ci sia uno spirito fatato che libera i cuori e scioglie le lingue. So anche che a volte lo spirito gli dà alla testa, e allora anche i brusii e l'allegrezza lasciano il posto alle grida delle donne. Tutte le volte che si sentono le grida delle donne del palazzo, la mamma mi dice che non è affare nostro e mi stringe al petto. A me piace ciò: mi piace che mi stringa la mamma al petto, così che – nel profondo dell'anima – sono dalla parte dello spirito che dà alla testa agli uomini.
Spesso, si fa buio. Hanno tolto di nuovo la luce questi! ha detto una volta mio padre. La mamma ha preso il vassoio e gliel'ha tirato sul muso. Mio padre non ha mai più detto questa frase, ma io non l'ho dimenticata. Quindi quando tolgono questa luce, di fronte ad ogni porta del nostro piano appare uno sgabello. Su questo sgabello si siede l'uomo di quella casa. A volte, anche se raramente, anche noi bambini, abbiam il permesso di seguirli. Gli uomini si dicono parole che capisco solo per metà. Sono tutti giovani, hanno tutti denti abbaglianti, che luccicano al buio.
Quelli che scendono dal cielo, dai piani superiori, non hanno più i denti, somigliano ai bambini più grandi, che li hanno persi non appena en trati a scuola. Non so perché, quelli che scendono dal cielo non si vantano affatto con le loro bocche sdentate. Guardo i denti di mio padre, guardo i denti dei nostri vicini.
Ogni tanto, la luce irrompe bruscamente, tutto il nostro palazzo si illumina e io immagino quindi che viviamo all'interno di un fuoco che non può toccare. Quando si accende la luce, tutti gli uomini socchiudono un attimo gli occhi e danno il via ad alcuni mormorii di protesta, che durano poco più di un secondo.
Ho quattro anni, è notte, tutte le luci sono spente, mi alzo e grido alla mamma. La mamma non mi risponde. Grido al papà, il papà non ri sponde. Sono solo e tutto è nero, ho quattro anni e so leggere l'orologio della parete. Ho quattro anni, sono le cinque del mattino e sono stato ab bandonato.
Vado verso la cucina, so esattamente dove sto andando, scalo una sedia, raggiungo il cassetto dove il papà tiene un'accetta. L'accetta ha un manico dipinto per metà di rosso e per metà di bianco. Prendo l'accetta, prendo la sedia, la metto davanti alla porta che dà verso il mondo. Salgo sulla sedia e inizio a picchiare il compensato con la lama dell'accetta.
Piango e picchio il compensato.
Sono quasi riuscito a fare una crepa nella porta dalla quale sarebbe potuto entrare il mio angelo custode. La nonna mi disse una volta che ho un angelo custode. Fuori, nel mondo, non c'è il mio angelo custode. Fuori c'è il vecchio Petre, il sarto, che urla perché io mi fermi. Io non mi fermo e il vecchio Petre mi grida: “Che c'è? Che cazzo ti è successo?”
Lascio che l'accetta mi cada dalle mani, balzo dalla sedia e fuggo nell'ultima camera, lì piango con le ginocchia al petto. Il vecchio Petre calcia la nostra porta, la porta inizia a volare per il piccolo corridoio, ma io non vedo niente di tutto ciò, ho un sipario di lacrime sugli occhi. Il vecchio Petre viene da me nell'ultima camera e mi dice di guardarlo. Non voglio. Allora è arrivata la mamma.
La mamma spinge il vecchio Petre e mi stringe alle braccia, come quando si sentono le urla delle donne del palazzo. Non ho più lacrime adesso, posso vedere il papà, come riempie la camera attraversandola. Sulle spalle ha appeso un sacchetto azzurro dal quale esce il collo di una bottiglia di latte vuota.
Il giorno seguente i miei mi hanno portato da Petruța. Era il 1° di agosto. Sopra di noi splendeva il cielo, le scarpe della mamma lasciavano le orme sull'asfalto. Era il giorno in cui ho deciso che non avrei mai più avuto paura. Era il giorno in cui ho deciso che sarei stato grande. Avrei voluto di chiarare guerra a Petruța dal nostro primo incontro ma aveva uno sguardo che non ammetteva ostilità. Petruța aveva gli occhi di un gigante buono. Era la persona più anziana che avessi mai visto. Non le ho dichiarato guerra, mi sono innamorato dei suoi occhi e ho iniziato ad ascoltarli. Non so perché ma da allora non ho più potuto guardare così a lungo negli occhi di una persona anziana.
I miei genitori insegnavano matematica nell'unica scuola media della città, la matematica era un continente a parte, al quale giungevi solo dopo aver capito che se hai due mele e Petruța ti dà altre due mele, finisci per avere quattro mele. Non mi piacevano le mele.
Petruța era pagata per prendersi cura di me quando i miei genitori erano occupati a scuola o con altre cose. Naturalmente lo faceva. Mi ta gliava le mele a fette, dopo non ho più mangiato mele che non fossero state tagliate a fette dalle mani di una donna.
I miei mi mollavano nel viale della casa di Petruța e venivano a ri prendermi sul tardi, nel pomeriggio. Sono stato felice con Petruța, ascoltavamo insieme le notizie che venivano dalla radio nazionale. Erano notizie sul Partito Unico e sul Nostro Grande Dittatore, ma per Petruța non ave vano alcun significato. Quando si sentiva la voce del Nostro Grande Dittatore, lei sbatteva la mano muovendo l'aria verso terra, in un gesto che non poteva che significare: “Ma va...”
Un giorno, Petruța mi ha chiesto, senza introduzione:
– Vuoi che ti insegni a ballare?
Non le ho offerto alcuna risposta, essendo che non ne avevo una. Nessuno mi aveva mai proposto una cosa del genere e non ero sicuro di sapere cosa significasse ballare. Petruța prese il mio silenzio per un accordo. Petruța mi ha insegnato a ballare e nemmeno so come si è fatto ottobre.
Lei aveva un orologio a cucù, il cuculo usciva dalla sua casa di legno e scandiva l'ora esatta. Era ottobre, l'orologio a cucù si preparava a rintoc care le ore dodici. Allora, Petruța ebbe un'altra idea che mi cambiò la vita. Lei, ogni giorno mi raccontava delle storie. Tuttavia non mi ha mai chiesto di darle ascolto:
− Ora, dimmi tu una storia.
Ho guardato dalla finestra, nel cortile. Petruța abitava in un apparta mento con una singola camera dentro una villa costruita dai tedeschi du rante l'Ultima Grande Guerra (guerra della quale non avevo conoscenza), ho visto un albero enorme, grigio, spoglio e molto solo.
Ho raccontato a Petruța una storia con un orco che voleva essere un principe azzurro che lottava fino alla fine, con gli altri orchi più piccoli, che vivevano dentro di lui. Petruța mi guardò con i suoi occhi grandi e buoni e mi disse:
− Tu hai il dono del cantastorie.
Petruța non parlava molto, ma diceva sempre tutto ciò che vi era da dire. Per un anno intero sono andato da lei come se fosse un'accademia, anche se non sapevo cosa significasse il termine accademia.
Sono cresciuto col suo volto e le sue sembianze: lei era una solitaria e anche io ero un solitario. Eravamo due solitari. Quest'anno – che è stato il più felice della mia vita – mi sono separato dai miei amici del palazzo, quell'anno sono diventato selvaggio, libero. Ero molto fiero della mia li bertà. Quest’anno ho indossato il vestito di questa libertà, che non ho mai voluto togliere, quest'anno ho imparato a credere nelle isole.
Un altro giorno, non si sa da dove, nel cortile di Petruța è apparso un gatto nero con una striscia perlata che gli divideva in modo curioso la testa. Petruța non amava particolarmente gli animali, li chiamava bestie, aveva tracciato un confine molto chiaro tra bestie e uomini e ci teneva molto a questo confine. Ma questo gatto nero... Forse Petruța aveva visto qualcosa in lui, o forse aveva fatto tutto senza rendersi conto dell’importanza dei fatti suoi, così come succedeva, di tanto in tanto, ai mortali. Petruța decise, senza consultarmi, che da allora in avanti ci saremmo presi cura del gatto. Rifiutò la mia proposta di dargli un nome. Un nome è qualcosa di definitivo, credo che a Petruța non piacessero gli eventi defini tivi. Mio padre non scoprì mai cosa ci facevamo col latte per il quale lui si svegliava alle quattro del mattino. Mio padre non seppe mai che lo divide vamo con un gatto nero che non ha mai avuto un nome suo. La mamma forse lo sapeva, mamma sapeva sempre tutto.
Io e Petruța avevamo un segreto. E non c’è nulla che conti di più nel legame tra due persone.
Arrivò di nuovo l'estate. In un giorno di quell'estate, per la prima volta da quando ci siamo incontrati, il gatto nero non venne in cortile. Io e Petruța siamo corsi disperati per strada. Abbiamo avuto paura di trovarlo squartato dalle ruote di un qualche autoturismo, allora ci siamo pentiti del fatto che non avesse un nome per poterlo chiamare, ma era troppo tardi.
L’abbiamo cercato per due ore intere, poi ci siamo seduti l'uno ac canto all'altra sul marciapiede e abbiamo lasciato tra di noi un silenzio che avrebbe potuto significare qualunque cosa. Sopra di noi c'era una striscia di cielo che aveva iniziato a sanguinare.