View Colofon
- "Diário de uma portuguesa em Angola" translated to PL by Gabriel Borowski,
- "Dagboek van een Portugese in Angola" translated to NL by Finne Anthonissen,
- "Fragment of a diary" translated to ES by Sara De Albornoz Domínguez,
- "Jurnalul unei portugheze în Angola" translated to RO by Iolanda Vasile,
- "Diário de uma Portuguesa em Angola" translated to SR by Tamina Šop,
- "Deník jedné Portugalky v Angole" translated to CZ by Štěpánka Huláková,
- "Dnevnik Portugalke v Angoli" translated to SL by Maruša Fakin,
Maria Gaia Belli
Diário de uma Portuguesa em Angola
Per anni e anni sono stata bombardata da racconti sull’Angola. Racconti che andavano da un eccesso all’altro: da chi si innamora del paese e si sente subito a casa, a chi lo odia e non riesce in alcun modo ad adattarsi. Racconti incredibili, quasi da film, tanto che a noi che ascoltavamo non sembravano veri. Ho sempre pensato che fossero esagerati, come tutte le storie che, passando di bocca in bocca, si ingigantiscono. In questo caso, le bocche erano decisamente troppe.
Per anni sono stata indecisa sul voler conoscere o meno un paese così mistico. C’erano momenti in cui pensavo fosse una meta irrinunciabile, per avere il timbro sul mio passaporto e dimostrare quanto potessi essere coraggiosa. Altri, in cui la parte di me più timorosa rifiutava di lanciarsi in una tale avventura ed ero convinta che laggiù non mi ci avrebbero mai visto.
Eppure, quando è capitata l’occasione, non ci ho pensato due volte: ho rinnovato il passaporto, fatto tutti i vaccini obbligatori e cercato di non pensare allo spaventoso numero di malattie che avrei potuto contrarre in Angola. Ho preparato il visto, salutato il mio migliore amico felino, fatto la valigia e… eccomi lì, pronta ad affrontare quel paese e forse, chissà, a innamorarmene perdutamente.
Prima parte
Luanda
Primo giorno
Mi sono svegliata presto, sentendomi come una pioniera dei film americani - di quelle che si imbarcano per paesi lontani e sconosciuti, portando con sé solo la voglia di conoscere altri popoli e culture - anche se, nel mio caso, l’Angola era stata colonizzata dal popolo portoghese. Ero così ansiosa di partire che non sono riuscita a dormire per paura di arrivare in ritardo e perdere l’aereo.
Confesso che adoro l'aeroporto. Il viavai di persone che corrono da una parte all’altra in cerca del banco per il check-in, leggere sullo schermo tutti quei nomi di posti così a lungo sognati. E poi gli addii: quelli lenti e commossi, quelli timidi e veloci che cercano di nascondere le lacrime, quei lunghi abbracci, che prospettano la futura nostalgia, e quelli più brevi, felici delle ferie tanto desiderate.
È stato un viaggio di otto ore tranquillo, che ho passato seduta sul mio sedile, con le cuffie nelle orecchie, cercando di concentrarmi sui film per evitare di fantasticare troppo sul mio arrivo. Le persone avrebbero capito il mio entusiasmo? Mi avrebbero trattata bene? Mi sarei adattata subito, appena arrivata? Erano queste le domande che affollavano la mia mente. Respiravo profondamente e cercavo essere positiva.
Arrivata a Luanda, c’era una temperatura per me decisamente insolita, trenta gradi di puro calore e umidità, tanto che mi sentivo avvolta da una pesantissima coperta che mi faceva sentire a mio agio e mi dava il benvenuto.
Come per ogni prima volta, tutto ciò che mi circondava mi sembrava nuovo. Cercavo di assorbirlo pian piano, per non perdermi neanche una briciola.
Abbiamo osservato l’abituale sfilata di bagagli con le dita incrociate, sperando che la mia valigia non fosse stata smarrita. Ho poi cercato di mettermi in una posizione confortevole, aspettando il mio passaggio. Dopo un’ora di attesa, seduta su quei sedili duri e scomodi, non è stato difficile distrarmi e cominciare a osservare tutto quello che stava succedendo intorno a me. Ho guardato come un cieco che apre gli occhi per la prima volta, perché trovarmi in quell'aeroporto, diversissimo da tutti quelli in cui ero già stata, era un’esperienza irripetibile. Ma ecco che finalmente il nostro passaggio è arrivato.
“Imbottigliamento” è la scusa più usata e nessuno osa opporsi visto che, appena entriamo nel traffico, ci accorgiamo che là è la parola che si usa di più. Mi ero già fatta un’idea di quello che mi aspettava, ma nessuno mi aveva detto che non esistevano strade nella capitale. In fondo, è una capitale! Ci sono buche grandi abbastanza da farci entrare una persona, che diventano ancora più profonde dopo che ha piovuto. Per non parlare della totale mancanza di illuminazione notturna. I lampioni sono lì, così come innumerevoli semafori per dirigere il traffico, quello che manca è l’elettricità. Non c’è da nessuna parte, né per strada, né dentro le case. Perché arrivassi a destinazione, c’è stato bisogno di un’ora di slalom - tra le buche, ma anche tra le mille persone che attraversano la strada come se fossero sull’attraversamento - di percorsi senza luce, tra i falò di spazzatura - unica fonte di illuminazione - tra magazzini distrutti e case - ok, forse “casa” è un termine eccessivo per chiamare queste quattro pareti fatte di strano materiale, con un tetto di zinco e senza porte o finestre.
Ammetto che, dopo aver visto in che condizioni erano la maggior parte delle abitazioni, ero piuttosto preoccupata di scoprire dovrei avrei alloggiato per un mese. Probabilmente però la mia buona stella mi vuole bene, perché la nostra casa era molto più simile a una villa, e aveva due cose che ritengo indispensabili: bagno con acqua corrente e aria condizionata. La vita è bella. Dopo un bagno per togliermi di dosso l’appiccicume del calore, e una notte di sonno per rimettere a posto le articolazioni rimaste bloccate dal lungo viaggio, sono tornata come nuova.
Respirare profondamente è qualcosa che non riesco più a fare, perché il calore è opprimente e l’aria odora di iodio a causa dell’eccessiva umidità. Le zanzare danzano intorno a qualsiasi fonte di luce. Spero che ci rimangano e mi lascino in pace. In fondo non mi sono mai piaciuti molto gli insetti e, dopo la lezione sulle malattie contraibili in questo paese tropicale, confesso di cominciare ad averne paura.
Eppure, a parte questo... penso che mi piacerà stare qui.
Secondo giorno
Ho dormito come una neonata. Le sette ore di volo e l’ora di macchina, sommate al calore opprimente, mi fanno ringraziare a mani giunte di avere l’aria condizionata in camera. Piccoli grandi lussi. Divido la mia stanza con una coinquilina più giovane di nome Angela, nipote della padrona di casa, che la segue nella sua educazione, e con la mia compagna di viaggio e avventure. Una stanza rosa (che sembra fatta apposta per me, neanche fossi una principessa!), con due letti a castello, una scrivania e una televisione a schermo piatto che non funziona, ma che dà un tocco in più alla stanza.
Mi sono avviata verso il bagno, munita di spazzolino da denti e di una bottiglia d’acqua per la mia igiene mattutina. Penso sia uno spreco lavarsi i denti con l’acqua della bottiglia, ma non oso oppormi agli ordini della dottoressa e, mentre osservo la tonalità dell’acqua che esce dal rubinetto, capisco che non si tratta di una raccomandazione del tutto fuori luogo. E poi non vorrei certo ammalarmi in questo paese, dove il sistema sanitario oltre a essere eccessivamente costoso, è anche così precario.
Faccio una colazione che non ha niente da invidiare a quella che di solito faccio in Portogallo. Prendo il mio caffè latte di sempre, insieme a un panino fresco che la piccola Angela ci è andata a prendere. Sono pronta per il mio primo giorno nella capitale.
Per me qualsiasi cosa succeda per strada è una novità. Ne capitano così tante che a tratti mi stordisce continuare a guardare qua e là, per non perdermi niente. Novità strane, tanto diverse da quello a cui sono abituata, ma che mi affascinano moltissimo. Il nostro autista è il secondo figlio della signora che ci offre da dormire e da mangiare, e che mi riserva un trattamento da principessa. Dopo un po’ di strada, parcheggia la jeep nera dai vetri oscurati di fianco a un ruscello, dove ci sono molti ragazzi e non so quante altre macchine posteggiate, con le portiere aperte. A fianco a me c’è un ragazzo a petto nudo, con dei pantaloni tutti bucati e delle infradito - senza dubbio di due numeri più piccole del suo piede - con in mano un secchio pieno d’acqua. Rimango stupefatta: il ragazzo versa tutto il contenuto del secchio dentro la macchina. Fortunatamente, grazie ai finestrini oscurati, non ha visto la mia espressione. Quando chiedo cosa stia facendo, mi viene spiegato che è così che funzionano le pulizie della macchina da queste parti. La polvere che c’è nell’aria è talmente tanta che si riesce a lavare via solo in questo modo. D’altra parte, viste le altissime temperature, i sedili si asciugano in un batter d’occhio. Mi sembra comunque strano, ma chi sono io per giudicare?
Dopo aver fissato un orario per la pulizia della nostra jeep, abbiamo proseguito verso Luanda. Appena arrivati, comincio a guardarmi intorno cercando quei tratti che mi fanno pensare a una capitale. Meno male che posso aspettare da seduta. Le strade sono una confusione assurda, senza corsie definite. I pedoni attraversano quando e come gli pare, anche perché non esistono strisce pedonali. C’è solo della terra rossa, al posto dei marciapiedi, e vecchia spazzatura. Montagne di spazzatura, ovunque.
Abbiamo passato la giornata a uscire ed entrare in macchina - tra il caldo esterno che ci pesava sul cuore e il freddo nordico dentro l’auto - uscire ed entrare nel Belas Shopping (il centro commerciale più “in” della zona), dove mi sono sentita quasi in Portogallo finché, ciliegina sulla torta, non siamo entrati in quello che è l’equivalente angolano del Pingo Doce. Mille casse aperte con file di più di dieci persone per volta, tanti dipendenti da non riuscire a contarli, eppure ho dovuto lo stesso aspettare al banco gastronomia, con altre quattro persone, per venti minuti buoni. Nel frattempo sei impiegati, che avrebbero dovuto servire i clienti, erano molto “indaffarati”, dietro al balcone, a parlare tra di loro o a fare avanti e indietro. Per pensare al cliente non c’è mai tempo. Tipico.
Per concludere la giornata e sentirmi sempre più angolana, la cosa migliore era provare un piatto del posto: pesce prata alla griglia con banane cotte. Finale delizioso. Per lo meno mi rassicura sapere che non morirò di fame, anche se dovrò ignorare alcune regole igieniche di base. Ho optato per l’antico “occhio non vede, cuore non duole”. Nel mio caso, occhio non vede, stomaco non si contorce.
Mi stupisco da sola per la naturalezza e la disinvoltura con cui accetto la realtà di questo paese.
Terzo giorno
Ieri è stata una notte di pioggia e tuoni. Per me, un incredibile spettacolo di madre natura, dove il cielo scuro veniva illuminato da lampi continui. Per la prima volta vedevo l’illuminazione notturna in questo paese. Per via della tempesta, però, l’elettricità è saltata in quasi tutte le case. Tutte, tranne la nostra: grazie a tutti gli dei esistenti e a quelli ancora da inventare, abbiamo il generatore di corrente.
Mi sono svegliata molto presto, visto che qui non posso dormire fino a tardi. Bisogna fare giri, visitare nuovi posti e calcolare anche il tempo in cui rimarremo bloccati nel traffico. Un viaggio che da qualsiasi altra parte durerebbe quindici minuti, qui è di almeno un’ora e mezza. Cosa di cui io in realtà non mi lamento, perché c’è sempre qualcosa di nuovo da vedere, anche quando capita di passare per gli stessi posti.
Primo incontro mattutino mentre vado a fare colazione: scarafaggi di dimensione soprannaturale - per lo meno per i miei standard - che camminano per tutto il pavimento, come in un film horror. Cosa faccio io? Comincio a gridare a squarciagola chiedendo aiuto? Mi improvviso sterminatrice pronta a colpire con la mia scarpa in mano? Noooo, niente di tutto questo. In punta di piedi, come se camminassi in un vero e proprio campo minato, facendo attenzione a non pestarne nessuno, ho continuato per la mia strada, lasciandoli in pace alla loro vita.