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Original text "A ponte" written in PT by João Valente,
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Published in edition #1 2017-2019

Il ponte

Translated from PT to IT by Francesca Leotta
Written in PT by João Valente

Tutte le stazioni dei treni hanno un orologio. A dire il vero, ne hanno più  di uno. Sopra la biglietteria c’è quello principale. Poi, nell’area partenze, ci  sono quelli più piccoli. Quelli utili, perché complici della nostra pigrizia  nel tirar fuori il cellulare dalla tasca o nel consultare l’orologio al polso. I  bambini rimangono affascinati da questi orologi. La lancetta dei secondi  che ruota senza sosta finisce per essere l’unica occasione in cui riescono a  vedere il tempo che passa. La osservano salire e, man mano che assume la  posizione verticale, i loro cuoricini battono più in fretta e gli occhi si spa lancano. Quando, alla fine, la lancetta dei minuti fa uno scatto, sanno che il  mondo è entrato in una nuova era. 
La banchina del binario era quasi vuota. C’erano forse una decina di  persone in attesa della partenza del treno. Non era ancora l’ora di punta,  momento in cui si sarebbe riempito di gente che fuggiva da Lisbona.  Cercavano di sganciarsi per qualche ora dal lavoro o dalla scula per tornare  nel paesino dove abitavano. Avevano fretta di andare a prendere i figli a  scuola o di fare compere, di studiare per un esame o di incontrare il proprio  amante. L’autunno aveva preso il controllo del calendario e il cielo da uno  dei lati della stazione mostrava una tonalità violacea, da fine del giorno. Al  lato apposto, l’azzurro tentava di resistere all’avanzare della notte. ‒ Un minuto ‒, disse Luís, dopo il balzo della lancetta. 
Ricardo si sistemò gli occhiali. Gli stavano larghi per colpa di una  vite allentata nelle stanghette e si ostinavano a scivolargli giù per il naso.  Guardò, invidioso, Luís. Come poteva essere così sicuro e rilassato? Stava  per commettere un crimine. E non era nemmeno quella la parte peggiore.  Stavano per sfidare un mostro di 140 tonnellate che si muoveva a 80 chilo metri orari. Potevano morire. Po-te-va-no mo-ri-re. Detto così, piano  piano, a sillabe ben scandite, faceva ancora più paura. 
Carolina guardò il cellulare. Voleva la conferma che, in effetti, man cava un minuto all’inizio. 
‒ Se continui a spegnerlo e riaccenderlo si scarica la batteria. E vale la  pena fare tutto questo solo se riesci a fare il video ‒, la sgridò Luís. ‒ Stavo solo… 
Il fischio del treno che annunciava la partenza spezzò la frase di  Carolina. Per tutta risposta, il convoglio cominciò a muoversi. ‒ Andiamo. Adesso o mai più! 
Seguirono Carolina e si scagliarono dalla banchina sulle rotaie dei  binari. Se qualcuno dal marciapiede li vide, mentre camminavano dietro le  carrozze, li ignorò senza una parola, un grido o senza chiamare aiuto. 
L’avventura cominciò settimane prima, quando si resero conto che l’anno  seguente avrebbero iniziato il liceo. 
‒ E se ci inseguono? ‒, chiese Carolina. 

‒ Non ci inseguiranno. Hanno paura del treno. Nella peggiore delle  ipotesi avvisano il personale della stazione. Ci prenderanno dall’altro lato,  ma riusciremo a passare il ponte ‒, presuppose Ricardo. E continuò: ‒ Tra  Oeiras e Santo Amaro ci sono 700 metri. A piedi, cioè a 5 chilometri all’ora,  ci servono nove minuti per fare il percorso. Se partiamo subito dopo il treno delle 17:23, ci rimangono 16 minuti prima del treno successivo, che  parte alle 17:37 da Oeiras e arriva a Santo Amaro alle 17:39. Avete capito? 
Ricardo pose la domanda al plurale, ma guardò Luís. Lui non ri spose, anche se quell’occhiata lo aveva irritato. 23 più 16 fa 39. Era un cal colo facile. Per il bene del gruppo, preferì rimanere zitto.  
Tutti gli studenti del liceo erano chiamati a coprire il percorso tra le  stazioni di Oeiras e Santo Amaro sui binari. L’unico tragitto passava su un  ponte di ferro, sospeso a trenta metri dal suolo. Percorrerlo implicava poter  cadere sull’asfalto della strada o essere schiacciati dal treno. Ma questo li  spaventava meno che subire cinque anni consecutivi di bullismo. Chi non faceva l’attraversamento non poteva sopravvivere all’adolescenza.  Perlomeno non con l’autostima intatta. 
Volevano essere i primi a compiere l’impresa prima ancora di comin ciare il liceo. E per darne prova dovevano filmarsi mentre lo facevano. Era  un due per uno. Oltre a conquistare il rispetto della scuola, avrebbero  messo il video sui social. Ma non su Facebook, perché tra gli amici c’erano  anche i loro genitori. Fatto il video, sarebbero diventati una leggenda. E per  una cosa simile valeva la pena rischiare la vita in un modo tanto pericoloso  e sconsiderato. 
Confidavano nei calcoli di Ricardo. Era uno dei migliori della classe.  Bravo in matematica, era l’unico in grado di tracciare la mediana del seg mento di una retta.  
‒ Cacchio… Mi sono dimenticata! 
Carolina infilò la mano in tasca e tirò fuori il cellulare. Lo accese e  mise la telecamera a registrare. In quell’istante passarono davanti a un car tello che diceva “Vietato passare” a lettere rosse. Ne approfittarono per sor ridere mentre con le dita facevano il segno della V. Proseguirono il viaggio e  Carolina ripetè alla videocamera il discorso che si era preparata la notte  prima di fronte allo specchio. 
Aspettò che i genitori si addormentassero sul divano, cullati da una  serie tv qualsiasi, e si chiuse in bagno. Ripetè il testo che aveva preparato un  paio di volte, fino a che rimase a guardare la propria immagine riflessa.  Prima davanti, poi dietro. Già si notava la forma del seno e i pantaloni  erano sempre più pieni nel fondoschiena. Da una parte era orgogliosa della  sua figura. Dall’altra, non era contenta del fatto che i ragazzi, a poco a poco,  l’avrebbero guardata in modo diverso. Prima era tutto più facile. Stavano insieme e questo bastava. Adesso sembrava che facessero a gara per la sua  attenzione. 
Si spaventò quando la porta del bagno si aprì. Temeva che i genitori  avessero sentito qualcosa. Si abbassò e fece le feste a Maria Antonieta, la  gatta che aveva adottato cinque anni prima. 
‒ Non dirlo a nessuno, è un segreto solo nostro. 
Si avvolse nella vestaglia per non vedere le curve del suo corpo e  provò un’altra volta il discorso con cui avrebbero aperto il video dell’attra versamento. 
I primi cento metri furono facili da vincere. Camminavano sulla ghiaia su  cui poggiavano le rotaie, ma quando arrivarono all’inizio del ponte si fer marono. Avevano paura. 
Fu Luís a muovere il primo passo sulla struttura metallica, obbli gando gli altri ad andargli dietro. La passerella di emergenza, stretta tra le  rotaie a destra e una rete metallica a sinistra, era larga un metro. Sul ponte  non c’era ghiaia. Tra le barre di ferro c’era l’abisso e il vento era molto più  forte di quanto avessero previsto. Dovevano proseguire lentamente e in fila  indiana: per primo Luís, poi Carolina con il braccio alzato per tenere al  sicuro il cellulare, e infine Ricardo. Lui riusciva a vedere la chiusura del reg giseno dell’amica che si insinuava sotto il tessuto della camicetta, ma il suo  sguardo si concentrò sul solco dei tricipiti di Luís, lasciati scoperti dalla  t-shirt. La figura, più alta di lui una decina di centimetri, gli impediva la  vista della stazione, in fondo. Ricardo si arrabbiò con le sue braccia molli,  con la pancia che sua madre adorava e con la peluria che non compariva.  
Fu allora che il ponte cominciò a tremare. Il vibrare quasi impercet tibile acquistò corpo e presto minacciò di smantellare la struttura. Lo stre pito metallico invase tutto. Impediva loro di vedere, di parlare e di pensare.  Ricardo li aveva avvertiti che alle 17:30 avrebbero incrociato un treno che  andava nella direzione opposta. Avrebbe contribuito a rendere il video  ancora più virale, con l’immagine dei vagoni che gli passavano accanto, lo  sguardo di terrore del macchinista e l’espressione incredula dei passeggeri. 
Ma non erano preparati alla potenza di 140 tonnellate. Gli sembrò  come se il ponte stesse per collassare. Terrorizzati, dovettero afferrarsi alla  rete e gli uni agli altri per non essere scaraventati via. 
Rimasero immobili anche dopo che tutto era finito. Ci volle molto  tempo per riprendersi. Fu Carolina la prima a liberarsi. Respirò profonda mente e diede una pacca amichevole sulle spalle dei compagni. 
‒ È meglio se continuiamo ‒, disse con voce sommessa, senza rive lare che il panico le aveva fatto dimenticare di filmare il passaggio del treno. ‒ I miei occhiali!


In piedi, con le spalle alla rete, videro il viso nudo di Ricardo. Le  mani percorrevano il volto, tentando di trovare qualcosa che non c’era più.  Il ponte aveva fatto la sua prima vittima. 
Volevano andarsene da lì il prima possibile. Si stavano abituando alla stret tezza di quella passerella, al vento che voleva buttarli giù, e camminavano  velocemente e con fare deciso. 
‒ Abbiamo sei minuti. ‒ Ricardo incollò la faccia allo schermo del  cellulare per vincere la miopia. 
‒ È meglio se ci sbrighiamo. 
Affrettarono il passo. Quasi correvano. A ogni passo sentivano il  ponte vibrare. Sempre di più. E capirono che non vibrava a causa loro.  Riconobbero il dondolio, il ronzio, l’anticipazione. Luís guardò indietro,  verso il marciapiede della stazione che avevano lasciato pochi minuti  prima, e lo vide. Con i fari accesi. Avanzando con lentezza, ma guada gnando velocità a ogni secondo. 
‒ Sta arrivando un altro treno ‒, gridò. 
Ricardo e Carolina rimasero come conigli in mezzo a una strada, in catenati dalle luci delle macchine. 
‒ È impossibile ‒, balbettò Ricardo. 
Confuso, incollò di nuovo gli occhi al cellulare. Erano passati nove  minuti. Avevano ancora più di cinque minuti prima della partenza succes siva. 
‒ Hai controllato gli orari? ‒, chiese Luís. 
‒ Sì. Eccoli. Il prossimo treno passa da qua solo tra cinque minuti. ‒  Agitava il telefono come se fosse un oracolo infallibile. 
‒ E allora come lo spieghi quello? 
‒ È impossibile. ‒ Ricardo faceva no con la testa. 
‒ Cazzo! Hai il treno davanti agli occhi e continui a dire che è im possibile? ‒ Luís indicava la locomotiva che veniva dritta contro di loro. ‒ È scritto su internet ‒, gridò Ricardo, avvicinandosi a Luís. ‒ Ah! Allora se è scritto su internet quello deve essere la mia imma ginazione. 
Carolina dovette mettersi tra i due. 
‒ Smettetela e correte! 
‒ Partì in direzione di Santo Amaro. I ragazzi la seguirono, tentando  di stare al passo. Il ponte vibrava sempre più violentemente, denunciando  che anche il treno aveva aumentato il ritmo. Carolina si azzardò a guardare  indietro. Era già molto vicino, a un centinaio di metri. L’uscita del ponte si  trovava al doppio della distanza. Si fermò. 
‒ Non ce la facciamo. 
‒ Continua a correre ‒, insistettero. 
‒ Ci prenderà prima che arriviamo alla fine del ponte. 
‒ Aggrappiamoci alla recinzione e lasciamolo passare ‒, suggerì  Luís. 
‒ Non c’è spazio ‒, gli rispose Carolina, che già stava gridando. Non  hai visto quando è passato l’altro treno? Le carrozze quasi toccano la rete.  Dobbiamo passare dall’altro lato.  
Le rotaie erano larghe circa trenta centimetri. In mezzo a loro uno spazio di  mezzo metro si apriva sull’abisso. Si tennero per mano così che, se uno  fosse caduto, gli altri lo avrebbero afferrato. Carolina andò avanti, con  Ricardo nel centro e Luís a chiudere il corteo. Avevano il treno quasi ad dosso e sentirono il sibilo disperato del conduttore che li vide troppo tardi, nascosti dall’imbrunire che si faceva notte. 
Nessuno dei tre sarebbe riuscito dopo a spiegare che cosa era suc cesso. Erano già agganciati alle rotaie della linea che andava nel senso oppo sto, erano riusciti a superare il pezzo più difficile. Un passo falso, uno  sbilanciamento, un sobbalzo forse. Sentirono le mani sciogliersi. E quando  si guardarono, tutto era cambiato. Luís percepì il panico sui volti degli  amici che cercavano di afferrarlo invano, limitandosi ad acchiappare man ciate di aria. Non vide il cellulare di Carolina che si frantumava sull’asfalto  della strada, decine di metri in giù. Rimase appeso con i piedi nel vuoto, ag grappato a una delle rotaie mentre il ponte sobbalzava per l’azione di 1700  cavalli del convoglio che stava per passargli accanto. 
Gli amici si lanciarono sopra di lui, ma la pelle sudata e la dispera zione continuavano a fargli scivolare le mani. Riuscirono a tirarlo su con  fatica. Gattonarono fino alla banchina dell’altro lato e si aggrapparono alla  recinzione nell’istante in cui il treno incrociò il trio. 
Non conservarono ricordi del resto del tragitto. Si trascinarono fino  all’altro lato del ponte e la memoria tornò quando arrivarono alla stazione  di Santo Amaro. In quel momento la circolazione era già stata sospesa e il  capo stazione li aspettava, accompagnato dalla polizia. Una piccola folla,  con le mani sulla bocca, li guardava dall’alto del marciapiede. 
L’attraversamento comparve nelle notizie a scorrimento dei telegior nali e occupò un quarto di pagina su un quotidiano del giorno seguente. Il  reporter del servizio optò per un’immagine d’archivio di un treno, invece  di scattare loro una fotografia, ma possedevano la prova di cui avevano bi sogno per entrare a scuola a testa alta. 
Li portarono nella stanza del capo stazione. Gli diedero dell’acqua e  scrissero una relazione preliminare dell’incidente. L’agente di polizia di  grado più alto li rimproverò, spiegando che non erano più dei bambini.  Quella ragazzata poteva provocare danni a molta gente, oltre ad averli messi  in grande pericolo. 
Un collega li informò che i genitori erano arrivati. Li lasciarono soli  nella stanza, avvolti nelle coperte. Rimasero in silenzio. Sentirono i nervi  che cedevano al riso. Provarono a non farsi sentire da fuori, ma le risate gli  uscirono a fiotti, incontrollabili. 
Uno dei poliziotti aprì la porta e li guardò, incredulo: 
‒ E ridete pure? 
‒ Scusi ‒, rispose Carolina tappandosi il sorriso con la mano. ‒ Non  volevamo.

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