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- "De kleine schrijvers" translated to NL by Anne Lopes Michielsen,
- "Los pequeños escritores" translated to ES by Lara Carrión,
- "Copiii scriitori" translated to RO by Simina Popa,
I bambini scrittori
Quasi tutto quello che è accaduto quel giorno è successo qui. Il mio dito indice punta alla testa. Molti anni dopo, mentre porto mio figlio a sco prire il ghiaccio, ricordo ancora tutti gli avvenimenti di quell’unico giorno come “la fucilazione”.
Non morì nessuno. Le persone erano pericolose, soprattutto i bam bini piccoli, appesi agli alberi, i piedi penzoloni ‒ e era dalla lingua in mezzo alla bocca che sarebbero venuti i crimini peggiori.
Ascoltare fa male, camminare è un trucco. Camminiamo. Perfino i piccoli dittatori invecchiano. I figli coabitano la terra con i padri, da milioni, forse migliaia di anni. Immaginate milioni! Figli di cellule e leoni, cellule figlie di cellule, un filo di figli che continuano i padri, con la solitudine dei ventriloqui. I massacri migliori sono silenziosi, si verificano nel tempo. Un altro modo di dirlo: la morte si piega all’oblio. Le famiglie sono messinscene, alla fine moriamo tutti. I piccoli dittatori? Lasciateli cre scere.
Sì, è quasi tutto proprio qui, come era al principio. Eravamo arrivati alla casa gialla con l’entusiasmo dissimulato proprio dei grandi scrittori. Non diventammo amici. Una ragione? Non desideravamo l’amicizia. Una ragione basta. Stavamo insieme, sotto lo stesso tetto, piccoli dentro la stessa casa. Per sempre?
‒ Mia madre è professoressa di matematica, insegna matematica. Mio padre è professore di matematica, insegna matematica. Io non voglio insegnare matematica.
Eravamo arrivati per scrivere e per correggere comportamenti. Uno dei piccoli voleva fare il pittore, un altro scalare montagne e a un terzo pia cevano le donne. Molto. Questo è successo prima dell’avvenimento. A quel bambino piacevano le donne come a un uomo piacciono le donne, come un’invenzione di carne e ossa, meglio di una madre. Il bambino leggeva di donne e guardava immagini di donne sulle riviste. Il potere della stampa.
‒ A me piace la libertà, ‒ mi spiegò un giorno in cui non parlò di donne.
‒ Sei sicuro?
Quel gruppo di ragazzini si era alimentato dell’antica vocazione: tor mentare i genitori. La cosa più interessante era che ora avrebbero dovuto proseguire senza genitori. Radunati per la letteratura, il loro problema minore era essere orfani. Sì, tecnicamente molti avevano un padre, anche se la definizione di padre era quella del primo oggetto che non avevano ap prezzato. Il figlio del colonnello, ad esempio, non aveva nessuno che gli scrivesse. Arrivava agosto e ottobre, e nessuna corrispondenza, perfino ot tobre aveva perso quella maiuscola che ricordava una rivoluzione.
La mia storia? È fin troppo semplice. Io volevo piacere alle persone. Molto. Gente, animali, alberi, la cosa diventava più pericolosa ogni giorno.
Cattura gli animali perché ti amino. Abbatti un albero perché, disteso, possa volerti bene.
Le lezioni di letteratura erano così: la letteratura avrebbe seminato in noi l’empatia scrupolosa dei matematici. Ci obbligavano a scrivere una storia a settimana e ci garantivano che alla fine dell’anno avremmo avuto cinquantadue storie e una di queste cinquantadue sarebbe stata una buona storia. La letteratura era manuale, come il tempo, e le storie come paesi; ce ne sono di felici, ce ne sono come isole nel pacifico, piccolissime, dove le donne vivono nude, solo dalla cintura in su.
Se avevamo nemici? Le pagine bianche. Io presagivo migliaia di pagine nemiche, bianco nella neve. Stropicciavo le pagine e immaginavo un sentimento nella neve.
‒ Cos’è questa cosa bianca?
‒ È un sentimento.
Di sentimenti ce ne sono a migliaia e non li possiamo fare fuori tutti. Diciamo nemico e tutti pensano a un nemico diverso. Nemico è come dire cane. Ognuno pensa al suo cane e alla fine c’è qualcosa che ci unisce.
Un’altra lezione di letteratura? Cercare l’equilibrio tra mostrare e raccontare. Due mani in aria, una per mostrare e l’altra per raccontare, trova l’equilibrio sospeso tra le due mani in aria. Ancora letteratura? Nessuno ha bisogno di dio per raccontare una storia, basta un po’ meno di dio. Tenta l'onniscienza in terza persona: lei disse e lei pensò, allo stesso tempo. Travestiti da dio mentre scrivi.
Cacat, il figlio del colonnello, raccontò la storia di cappuccetto rosso e lui era il lupo, il taglialegna, l’accetta e i denti del lupo. La sua fame era ter ribile. Non scrivere quando hai fame, ci avevano consigliato. Nell’esercizio di letteratura americana, Cacat voleva essere i denti della balena, ovvio, o la gamba mozzata del capitano della nave.
All’aula studio più bella diedero il nome di Weltliteratur. Era deco rata in stile mitteleuropeo, i soffitti bianchi in basso rilievo e una luce fioca come un tramonto a Latina, Italia, Budapest, Berlino. C’erano scarafaggi.
All’inizio nessuno comprese tutto il pericolo delle inclinazioni di Cacat. Né Aleaa, la vittima, né io. Senza rendermene conto, tutti finirono per desiderare di essere scrittori, nel senso peggiore della parola scrittore. Ci avviciniamo un’altra volta all’onniscienza? Quei bambini volevano essere onniscienti col coltello in mano, ed erano in cerca. Assumevano sempre la prospettiva del coltello, il punto di vista della carne, scrivevano con una spaventosa insufficienza di alimenti. Era una scelta.
Cacat annunciò che si sarebbe tatuato da solo, sulla schiena. Avrebbe usato i denti affilati di una forchetta. Non ne ebbe il coraggio e, il giorno in cui perse il coraggio di farsi male da solo, Cacat scoprì il modo di tormentare Aleaa.
‒ Tua madre è molto bella, tua madre è molto bella.
Agli ordini di Cacat i bambini accerchiavano Aleaa, le teste alzate come formiche cieche, e lo convincevano della bellezza della sua stessa madre. Un insulto, insomma. Aleaa piangeva e molte volte mi allontanai, cercando invano un nuovo significato per la bellezza materna.
‒ La pancia di tua madre, ‒ gridavano. ‒ Ho visto la pancia di tua madre.
‒ I capelli.
‒ Io ho visto la mano.
‒ Le dita dei piedi.
‒ I gomiti e il sedere.
‒ Soprattutto il sedere.
La parola pancia suonava come una menzogna. Apprendevamo let teratura e apprendevamo a mentire, ma mentire senza uccidere. Per alcuni non uccidere era una delusione. C’era l’equivalente del sangue in quell’asse dio di formiche. Pancia mi suonava come una parola india, appena arrivata dalle Americhe per vendetta, in cambio del morbillo e del vaiolo che gli avevamo inviato secoli prima.
‒ Fammi vedere il gomito! ‒ ordinò Cacat.
‒ No.
Abbiamo paura del nostro stesso gomito. Qualcosa di familiare e in visibile. Aleaa resistette. Alla fine, mostrò il gomito invisibile. ‒ Non ti faccio vedere proprio niente.
Il cerchio di bambini-formiche cantava. “Abbiamo visto il gomito di tua madre! Abbiamo visto...”. C’era realismo magico, soprattutto realismo, in questo sforzo di concentrazione su parti specifiche del corpo. La realtà è la migliore delle letterature. E perché scrivevano, i bambini? Scrivevano con lo stomaco, con il sangue dentro? Grazie alla vita interiore, agli amici, per essere amati? Scrivevano come un albero dà le mele, scrivevano come un melo?
Un giorno, uno degli adulti venne a interrompere il massacro. “Pensate di essere ad Auschwitz? Questa non è Auschwitz, questa è una de mocrazia!”. Cacat non aveva idea di cosa fosse Auschwitz, credeva che Auschwitz fosse una persona. Ricordo di aver pensato: “questo non sa cosa sia Auschwitz, pensa che Auschwitz sia una persona”. Chi è Auschwitz? Come è possibile che una persona non sappia che Auschwitz non è una persona? Come è possibile che un essere umano non conosca…? Esseri umani, conosciate Auschwitz!
‒ Io voglio mangiarmela la democrazia, ‒ borbottò Cacat, una fame che riconosce un’ignoranza.
La fine venne all’improvviso, due giorni dopo aver pensato ad Auschwitz, quando Cacat, appeso a un albero per le gambe, a testa in giù, guardava il corpo di una donna su una rivista aperta. Da quella altezza tre menda la lingua di Cacat, già fuori dalla bocca, era pronta a uccidere. E tut tavia Cacat rimaneva in silenzio, in equilibrio e attento come uno zoppo, ed erano i bambini scrittori, nel loro cerchio di formiche a terra, che asse diavano un’ultima volta il povero Aleaa con cantici terribili sulla bellezza materna.
‒ Aleaa ha una madre bella, bella, bella!
E poi compresi. E poi vidi. In realtà vidi e compresi, in questo ordine immensamente antico. Io ero come Omero, il fratello cieco, e la donna nella rivista parlava, intera e nuda, in quel modo in cui nessuno aveva mai visto una donna nuda. Non ci sono descrizioni fisiche nella Bibbia. Non di persone, non di Dio. Quello che vidi era crudo e vero. Senza alcuna certezza che la donna sulla rivista fosse la madre di Aleaa, capii la voracità dei bambini, la loro eccitazione, la loro incapacità di fronte a una donna che annunciava una parte del futuro. La donna era molto bella. Usate i cinque sensi, non limitatevi alla vista, raccomandano agli ap prendisti letterati. Dalla cima di quell’albero scendeva qualcosa che imitava l’olfatto e il tatto, ma arrivava a terra come immagine e promessa di un caos. Non c’era caos, quello non era un principio. Le cose finivano là.
Mi feci largo. Aleaa stava al centro, a terra, la schiena nuda come il corpo della sua presunta madre. Sulla schiena aveva uno spartito di lettere finissime, fatte con una forchetta poco profonda. Vedo la schiena, la pelle e i gomiti, soprattutto i gomiti.
Qualcosa finiva là. Sta succedendo qualcosa?
La caduta ci assordò come una vendetta. Ci fu un silenzio esagerato, Cacat non ebbe il tempo di concludere il grido. Volò dall’albero a terra con la velocità di un ferito che tenta la fuga. Lo credemmo subito morto. Teneva stretta la rivista con una mano chiusa sulle immagini delle donne, senza pudore, le dita di silenzio a imitare l’odore delle poderose ispirazioni. Per un minuto tutti guardammo, nessuno si mosse.
Cacat non morì.
Di tutti i bambini scrittori, nessuno sarebbe diventato scrittore. Ci furono poeti, naturalmente, un traduttore di prestigio. Aleaa si trasformò in un saltatore olimpico e Cacat nell’impiegato più puntiglioso di un’agen zia funebre. Non smisi mai di pensare che nessuno di quei bambini scordò
più quel giorno, quella bellezza e quell’incidente.