And you treated my woman to a flake of your life,
And when she came back she was nobody’s wife.
(Leonard Cohen, Famous Blue Raincoat)
In una roulotte sperduta nel deserto, un uomo tiene fra le mani una lettera. Osserva con insistenza la conclusione: «Distinti saluti, L.C.». Sembra la classica chiusura di una lettera d’affari. L’ha letta d’un fiato e dopo tante frasi decisive, appassionate, scritte con lo scopo di fare il bilancio di tutta una vita, quello che più lo stupisce è: «Distinti saluti, L.C.». Asettico. Tanto impersonale quanto una sentenza di morte in bocca a un giudice. È in violento contrasto con il tono del corpo della lettera e, tuttavia, non trova tracce di ironia. È, piuttosto, tirarsi indietro all’ultimo momento. L.C. ritratta, o mente. L.C. scrive a macchina in modo maldestro. Si notano cancellature e lettere sovrapposte. La carta spessa rivela l’inchiostro e i solchi lasciati dall’impatto dei tasti sulla superficie porosa. L’uomo passa il polpastrello sopra le frasi e sente il rilievo delle parole, come un tatuaggio appena inciso. Cosa ne faccio, si domanda a voce alta. Deve disfarsi del documento prima che torni sua moglie, ma non c'è un camino dove bruciarlo; e, quel che è peggio, non c’è nemmeno un cestino dell’immondizia.
A cento metri dalla roulotte si accumulano i calcinacci e la ghiaia del progetto di una casa dove invecchiare, lontano dal mondo. Per adesso, utilizzano il cantiere come discarica. Mescolano l’immondizia a quella prodotta dagli operai, per disfarsene. Emily non vuole che l’automobile abbia un cattivo odore. Sono trascorse più di tre ore da quando è andata a fare la spesa in paese. La carenza di spazio vitale è insopportabile quando sono insieme nella roulotte, e lui desidera soltanto che lei sparisca. Dopo, però, si sente solo. Osserva il paesaggio e si inganna credendo che il punto più lontano, quella linea perfetta su cui i suoi occhi riassumono l’infinito, sia la linea dell’orizzonte. Quando ricorda che questo è impossibile, lo assale un’enorme nostalgia. Di fatto ha visto il mare aperto quattro o cinque volte nella vita. Questa malinconia può essere soltanto un miraggio; uno dei tanti che la noia e la sete spesso gli provocano. Perché da quando si sono stabiliti nel deserto si disidrata con facilità. Non è che manchi l’acqua, è che lui si dimentica di bere. È come se il sistema di allarme di tale necessità fisiologica si fosse rotto. Non sente la bocca asciutta, la saliva pastosa, i crampi allo stomaco; no. Si ricorda che sono trenta ore che non ingerisce liquidi soltanto quando è troppo tardi per evitare la vista annebbiata e il sudore freddo che gli cola dalla fronte alcuni secondi prima di svenire.
Emily gli ha impostato la sveglia in modo tale che ogni due ore uno squillo gli ricorda che è ancora vivo e che, pertanto, gli incombono determinati obblighi di mantenimento biologico. Il suono è metallico, e ricorda quello dei campanelli utilizzati nei film d’epoca per chiamare gli inservienti. Mentre sta per rileggere la lettera, è quel rumore a interromperlo. Obbediente, abbandona il foglio di carta sopra il tavolo per la prima volta dopo ore, e si dirige in cucina. Alzandosi, avverte un movimento fra il mezzero che ricopre fino a terra il divano letto. Non è la prima volta che entrano dei predatori. Qualche settimana prima avevano trovato una scia di piccoli escrementi nel mobile delle conserve. Avevano messo alcune trappole con del veleno per roditori e, un paio di giorni dopo, l’odore intenso di carne andata a male li aveva avvertiti di un cadavere di opossum intrappolato sotto il lavello. Il muso appuntito dell’animale si era cristallizzato in una smorfia di dolore patetica, in grado di provocare nausea, ma nessun senso di colpa o compassione. Aveva lasciato che fosse Emily a occuparsi della carcassa. Disinfettarono la zona con prodotti per la pulizia industriale, ma ancora oggi, se si sforza, riconosce in cucina un aroma dolciastro che diventa sgradevole soltanto quando ne ricorda l’origine. Un racimolo di pensiero infantile gli sussurra: «L’opossum è tornato per vendicarsi», e afferra una scopa con apprensione. Si allontana tanto quanto la lunghezza del bastone gli concede e infila le setole della scopa sotto il divano. Dà una spazzata veloce da parte a parte, ma non succede niente. Si ferma per qualche istante, si avvicina di una spanna e spinge la scopa fino in fondo. Ripete il movimento da un estremo all’altro del divano e al centro si imbatte in un ostacolo. Il suo cervello elabora il suono, simile a quello di un sonaglio, ancora prima di percepirlo coscientemente. Getta a terra la scopa, retrocede con un balzo e schiva giusto in tempo l’attacco del serpente, uscito platealmente da sotto il mezzero, divenuto il sipario del palcoscenico. Sono entrambi pietrificati nella medesima postura, il corpo immobile, il capo particolarmente proteso verso l’alto, il collo in tensione. A scoppio ritardato, l’uomo caccia un grido acuto che non identifica come proprio; se qualcuno all’esterno lo sentisse penserebbe al grido di una donna, al grido di Emily, anche se lei non griderebbe per una cosa del genere. A ogni buon conto, il suono sembra essere utile, perché nell’udirlo l’animale si arrotola su sé stesso assumendo la forma di una «S» e indietreggia. Lui vorrebbe fuggire, ma qualcosa di ipnotico nelle figure romboidali che decorano le squame gli impedisce di distogliere lo sguardo. Ha l’impressione di contemplare un dipinto puntinista, ma non è capace di distrarsi dal dettaglio per osservare l’insieme. Pensa a come abbandonare la roulotte senza avvicinarsi né dare le spalle al rettile. Si arrampica molto lentamente su una sedia, in alto si sente più al sicuro. La cosa migliore sarà fuggire senza calpestare il pavimento. Monta sul tavolo della sala da pranzo e da quel punto raggiunge il piano della cucina, che comunica con la finestra più grande della casa mobile. Ogni movimento lo ha allontanato dal serpente, che non si è scomposto. Adesso deve perderlo di vista e calarsi all’esterno: durante questi istanti, sentirà un formicolio freddo lungo la schiena. Sarà come se gli conficcassero aghi sottilissimi e gelati o come se un veleno neurotossico si facesse spazio nel suo corpo. Cadendo sulla sabbia, la sensazione svanisce.
Respira profondamente dalla bocca e la gola gli brucia. Non capisce perché il cuore si scateni proprio ora che tutto è passato, con effetto ritardato. Impiega un paio di secondi per riprendere fiato, polso e piena consapevolezza della smisurata distesa di sabbia rossastra che lo circonda. Per la prima volta gli sembra pericolosa. La paralisi del deserto è tutta apparenza, una facciata dietro la quale si nasconde un intreccio preistorico di tunnel sovrappopolati di animali pericolosi, pensa. Si asciuga il sudore con la manica della camicia e ricorda che a New York è inverno; o meglio, ricorda di aver letto nella lettera di L.C. che a New York è inverno. Da quando si sono trasferiti, a malapena si rende conto del passare del tempo. Gli operai, che la domenica non lavorano, gli ricordano con la loro assenza il trascorrere delle settimane, ma il suo libro procede così a rilento che i fogli ammucchiati sulla scrivania potrebbero benissimo indicare che tutto intorno a lui sia sospeso. Leggendo «Distinti saluti, L.C.» si era chiesto se a Jane sarebbe piaciuto questo posto e aveva deciso all’istante che fosse meglio non pensarci (non pensarla), perché se qualcosa si ingegnava a fare in mezzo al nulla era imparare a non pensare. Se avesse almeno preso le sigarette, questo sì. Se avesse soltanto il coraggio di entrare a cercarle. Si avvicina alle tracce di pneumatico lasciate da Emily con la Land Rover e si siede a terra, come un naufrago, senza nient’altro da fare se non attendere i soccorsi.
Si sta già facendo sera, con il calare del sole carminio come la terra, quando sente in lontananza il rumore di un motore. Ha pensato che la cosa più sensata sarebbe passare la notte in un motel del paese. Il mattino dopo, si sarebbero affidati a uno specialista per risolvere la situazione. Emily ferma l’automobile accanto a lui e alza una nuvola di polvere che lo copre da capo a piedi. Esce dalla macchina ridendo e gli chiede di prendere le borse nel baule. Si dirige decisa alla roulotte e lui la rincorre. Le racconta l’accaduto cercando di mantenere la calma, camuffando la paura, perché è stufo di essere sbeffeggiato da lei. Quando vivevano a New York, Emily non accennava mai all’infanzia dell’uomo, trascorsa in un ranch del Texas. Adesso è la sua arma segreta, l’origine del sarcasmo con cui gli rinfaccia tutti i suoi capricci: la panna spessa del latte appena munto che lui toglie con disgusto; l’incapacità di imporsi con gli operai, che lo trattano come un idiota che sembra chiedere a tutti i costi di essere truffato. E, naturalmente, la paura degli animali, non sempre pericolosi: il gigantesco mastino del capomastro, le mandrie che alle volte bloccano le strade, le zecche dalle teste nere gonfie di sangue, che scambia per nei. Tutto quello che lui fa, dice o ignora del nuovo habitat, serve a Emily come scusa per vendicarsi di una vita di complessi. Perché Emily non si è mai sentita a proprio agio nella sua cerchia di amici. La irritavano in special modo quelle feste a casa di L.C. e Jane cui partecipavano scrittori e artisti, con i loro scherzi incomprensibili e le loro domande insidiose. E tu, Emily, di cosa ti occupi? Emily era dipendente in una tipografia. Emily non sapeva né di libri, né di musica, né della relazione fra suo marito e la padrona di casa. Lei non sapeva mai niente.
Adesso trova ridicola la proposta di passare la notte fuori. Tutto il cibo comprato è deperibile e si dovrà gettare via se non lo si mette subito in frigorifero. Lui le osserva le pupille dilatate e intuisce cosa succederà: ha deciso che si occuperà lei stessa del serpente. «Descrivimelo», gli intima, ma la paura e il disgusto gli hanno annebbiato la memoria. Colore? Testa piatta? La punta della coda era dritta? Ricorda soltanto l’effetto delle macchie a forma di diamante. Emily sbuffa e torna all’automobile. Prende dal vano portaoggetti una piccola pistola 6 mm comprata appena lasciata New York. È molto leggera e ha imparato a maneggiarla con notevole precisione, sparando alle lattine in mezzo al deserto. Il giardino sul retro è, come lei stessa afferma, il poligono di tiro ideale. «Aiutami a trovare un bastone», gli ordina. Lui non intende dissuaderla, sa che sarebbe invano. E ha ancor meno intenzione di entrare nella roulotte dietro a lei. «Se decidi di farlo, lo farai da sola». La moglie lo guarda con disprezzo e annuisce: «Ho fatto tutto da sola da quando siamo arrivati».
Si avvicinano al cantiere e, rovistando fra le macerie, trovano un asse stretto tempestato di chiodi. Emily chiede all’uomo di aspettarla nell’automobile con il motore acceso, in caso dovessero correre all’ospedale più vicino. Lui la osserva dallo specchietto retrovisore, il bastone nella mano sinistra, la pistola nella destra. Si sente talmente umiliato che gli viene da piangere. L’immagine di sua moglie che si allontana gli ricorda l’immagine della moglie di L.C., che si allontana non nel deserto bensì alla stazione ferroviaria, in un tempo talmente remoto da apparirgli immemoriale, praticamente un’altra vita. Era l’unico modo per dimenticare Jane: cambiare ecosistema, come una specie in via di estinzione. Nella lettera, L.C. riconosceva il coraggio dell’uomo. Aveva avuto fegato a fuggire. È un ulteriore paradosso nello scritto più involontariamente contraddittorio che abbia mai letto del suo vecchio amico. Perfino le cancellature e le lettere sovrapposte sembrano arrivare dallo stesso disordine strutturale. «Distinti saluti, L.C.». Si appoggia allo schienale, chiude gli occhi e presta attenzione al ritmo della lancetta dei secondi dell’orologio da polso che si percepisce nitidamente nel silenzio che li circonda. Comincia a contare. Somma trecentoquarantanove scatti di lancetta e risuona uno sparo. Esce dall’auto e corre verso la porta della roulotte sentendo un’occlusione all’altezza del pomo d’Adamo che gli impedisce di deglutire. È probabile che si stia disidratando un’altra volta. Sputa un grumo di saliva densa sulla sabbia e grida il nome di Emily. Malgrado non ottenga risposta, sente i tacchi degli stivali pestare con forza il pavimento della roulotte e respira sollevato.
Lei apre la porta con un piede. Il calcio è così forte che la lamina della lamiera rimbalza ripetutamente contro il telaio, sbattendo. Non ha utilizzato le mani perché sono occupate. In una tiene il cadavere del serpente, senza testa: un metro e mezzo di mosaico di squame che termina in un moncone. Nell’altra brandisce la lettera di L.C., stropicciata e con resti di sangue. Emily sembra la rappresentazione allegorica di un concetto astratto che lui non sa determinare: raggelata sull’uscio, immobile e muta, in attesa di essere decifrata. Sente come se qualcosa di duro lo avesse appena colpito in fronte. «Come ho potuto dimenticarmene. Come ho potuto dimenticare che la lettera era in vista sulla scrivania.» Non riesce a sostenere lo sguardo di Emily e abbassa la testa, imbarazzato. Pensa che non smetterà mai di sorprenderlo l’aridità del terreno che si è ingoiato totalmente la saliva appena sputata. Presto, ingoierà anche il rivolo di sangue che sta lasciando il corpo mutilato del serpente a sonagli.