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Lo strapiombo del bombo

Translated from SL to IT by Lucia Gaja Scuteri
Written in SL by Agata Tomažič

Giorno zero

Ancora una volta le dita slittarono, quasi in automatico, verso il cellulare appoggiato accanto al piatto di brodo. Non tanto perché si aspettasse di veder apparire sullo schermo chissacché di super eccitante, no, anzi, era piuttosto la forza dell’abitudine a non dargli pace... Già, ogni volta che tornava per qualche giorno a casa, l’app di incontri la disattivava sempre. Tuttora non gli era ancora del tutto chiaro, se lo faceva a beneficio personale e della famiglia – perché stava male al solo pensiero di poterli mettere in imbarazzo – o se invece lo faceva per cautelarsi contro disagi per così dire collaterali: scoprire tra le persone online i soprannomi patetici e le fotografie mezze sgranate e penose di qualche concittadino che, all’infuori, coltivava accuratamente le apparenze di marito amorevole e di padre di famiglia modello, mentre invece, dentro di sé, era tutt’altro, sarebbe stato davvero troppo per lui. Già, perché le apparenze a Villa Costone erano fondamentali.
«Basta, lascia stare questo telefono!» l’esclamazione gli colpì la mano quasi come una scudisciata, rimbombando minacciosa per la cucina scura interamente rivestita in legno. «È da maleducati guardare il telefono di continuo durante i pasti! Tua madre ha cucinato così bene e tu te ne freghi! E sono così poche le occasioni di mangiare così, tutti insieme!»
Chinò il capo e senza volere si incurvò su se stesso, assumendo l’aspetto del cane che viene sgridato dal padrone perché colto in flagrante durante un’attività proibita. Con tutto che, poi, non si capisce se il cane stia davvero rimpiangendo la propria azione o abbia piuttosto, con gli anni, imparato a simulare contrizione perché ha capito che mostrare pentimento fa piacere al padrone. Dopo più di vent’anni di vita, Jan sapeva fin troppo bene cosa mettesse di cattivo umore e cosa rabbonisse sua nonna. Sapeva anche che l’elenco delle cose che la indispettivano era infinitamente più lungo dell’elenco di cose che la rallegravano e le facevano scintillare gli occhi di felicità. Vera non era una di quelle nonnine affettuose che viziano i nipoti e comprano loro il gelato e li portano allo zoo nonostante gli espliciti divieti dei genitori perché i figli si erano comportati male e non se lo meritavano. Perché loro sono nonne e l’educazione ai propri figli l’hanno già impartita, mentre i nipoti sono qui soprattutto per essere viziati e coccolati, no?
Vera, invece no, non era così. Anzi, persino quando Jan era irreprensibile – cioè praticamente sempre – e portava a casa una pagella con soli ottimi voti – cioè praticamente per tutti i primi dodici anni del ciclo scolastico obbligatorio – la nonna non gli concedeva neanche mezza parola di approvazione e men che meno gli regalava una carezza. E neanche lontanamente banconote o intere mazzette, come invece facevano i nonni dei compagni di classe di Jan per voti ben peggiori dei suoi. I suoi compagni di classe per la pagella di fine anno, anche se mediocre, ricevevano da nonni o genitori costose mountain bike, attrezzatura sciistica all’ultimo grido oppure grosse somme di denaro con cui scegliersi da soli i regali più desiderati. Jan aveva imparato a sciare su un paio di vecchi arnesi, la bici l’aveva ereditata dal padre perché al genitore era passata la voglia di pedalare, e talvolta aveva persino i vestiti e le scarpe di seconda mano, nonostante non avesse né fratelli né sorelle maggiori. Fino al giorno in cui un compagno di classe, dal quale si faceva spesso prestare i soldi per la merenda, non gli disse stizzito che non gli avrebbe dato più niente e non avrebbe più tollerato la sua avarizia perché sua mamma gli aveva detto che avevano soldi a palate, fino a quel momento Jan non aveva la più pallida idea che la sua famiglia fosse in realtà parecchio facoltosa. Anche per gli standard al di fuori di Villa Costone erano ricchi, e pare lo fossero persino per quelli della città vicina, la cittadina da cui ogni anno si riversava in paese gente in vacanza. E per quanto il loro albergo con le sue appena quindici stanze non fosse chissà quanto grande e lussuoso, come altri alberghi in paese, era però comunque il più antico e il più bello e soprattutto poteva vantare una lunga tradizione di gestione famigliare. Entrambe le cose, la tradizione e il fatto che rientrasse nella categoria dei cosiddetti alberghi a conduzione famigliare, negli anni erano diventate peculiarità sempre più apprezzate che assicuravano al loro albergo il sold out non solo nella stagione invernale, ma oramai di regola anche in quella estiva.
La maggior parte dei turisti cade infatti nella trappola e crede che l’aggettivo famigliare associato a un albergo sia garanzia di un calore e di un amore di cui solo le famiglie sarebbero capaci (il che, ovviamente, è a sua volta una trappola e un’illusione). L’Hotel Flajs era gestito alla perfezione, era pulito e gli ospiti si trovavano bene e tornavano volentieri – tutto ciò, però, non era certo dato dalla gestione famigliare, considerando che in questa famiglia c’era ben poco di caldo, di amorevole e di umano. L’unica e la principale ragione del successo dell’hotel era Vera. Vera, le cui labbra non si arricciavano quasi mai in un sorriso e anzi, il più delle volte si serravano in una linea retta che faceva pensare alla fessura di un salvadanaio. Come se l’anziana signora avesse paura che insieme all’aria espirata, si sarebbe lasciata sfuggire di bocca anche un qualcosa di prezioso che valeva, invece, la pena trattenere un altro po’ e investire e mettere a frutto.
Era così da tempo immemore, Jan se la ricordava così da quand’era piccolo, e negli anni era solo peggiorata. Alzò gli occhi e studiò l’espressione sprezzante e autoritaria del suo viso e lo sguardo freddo e disgustato con cui lo stava guardando. Aveva la carnagione cerea, poco frastagliata da grinze o rughe nonostante l’età avanzata – come se il suo eterno rancore l’avesse protetta dai solchi della vecchiaia. I capelli grigi le si stavano diradando e assottigliando – i pendenti d’oro che le aveva regalato il padre per il decimo compleanno e che, a suo dire, da allora non aveva mai più tolto, le avevano allungato i buchi alle orecchie a dismisura, ai limiti della decenza. Le penzolavano come delle mammelle di anziane donne africane, suscitando orrore e fomentando la paura ancestrale della morte e della vecchiaia e della lenta decomposizione del corpo. Jan non poteva soffrire la vista dei suoi lobi, ogni volta che tornava a casa e lei gli intimava di abbracciarla, lui chiudeva gli occhi, in preda all’orrore, per non dover vedere quei pezzi molli di carne pendula. Quando aveva iniziato a studiare Storia dell’arte all’università ed era stato introdotto dai suoi professori ai vari stili artistici sviluppatisi nel corso della storia, aveva di colpo capito chi gli ricordasse sua nonna: una di quelle matrone che Rembrandt ritraeva su commissione al fianco dei mariti, avidi mercanti dell’Aja o di Delft dal bagliore offuscato negli occhi. Sarebbe bastata una cuffietta bianca, un colletto bianco sul pullover nero e Vera ne sarebbe stata la copia sputata, come se avesse preso vita e fosse uscita dal quadro di uno dei maestri del Rinascimento settentrionale. Certo, senza marito al fianco visto che era deceduto molto tempo prima. In sua memoria, Vera, da quando era diventata vedova vestiva solo di nero. 
«Sì, nonna» disse Jan. «Scusa» aggiunse, girandosi verso la madre, una signora minuta il cui viso era tanto più infossato e consunto quanto la pelle su quello di Vera era tesa e radiosa. 
Proprio in quel momento si sentì il nitrito di un cavallo. Proveniva dalla portafinestra che dava sulla terrazza, spalancata perché non faceva particolarmente freddo all’esterno, e in più era una giornata di sole e all’ora di pranzo, ai raggi di quel sole di prima primavera, i mucchietti di neve sulla ringhiera della terrazza già si scioglievano. La piccola pozzanghera sul pavimento si espandeva e si allargava, di notte poi, con la colonnina del mercurio che tornava sotto lo zero, si congelava di nuovo, ma era ormai evidente che l’inverno avesse i giorni contati. Quello in realtà era il periodo migliore per sciare, quello più bello, quello in cui la neve è ancora compatta sulle piste e gli sciatori verso mezzogiorno possono rilassarsi sulle sdraio davanti alle baite e oziare al sole come le lucertole. Motivo per cui le tariffe di alloggio primaverili erano anche le più alte in assoluto. 
I nitriti si facevano sempre più vicini. 
«Dannato alleva-cavalli!» sbuffò Vera con disprezzo. «Non ci posso credere che va ancora in giro col cavallo. Ma chi si crede di essere? Uno di quei partigiani che quand’è finita la guerra venivano a Ljubljana e le strade poi erano imbrattate di sterco di cavallo ed era tutto appestato? La mela non cade mai lontano dall’albero... » disse, facendo una smorfia e lasciando cadere le posate, come se i nitriti equini l’avessero a tal punto infastidita da farle passare l’appetito. 
Una testa irsuta fece capolino dalla portafinestra. Una specie di Grizzly Adams, con la differenza che sia i capelli sia i peli della barba tendevano al brizzolato. Boccheggiava, cercava di riprendere fiato, si appigliava al telaio della porta con una mano. Riuscì infine ad aprire la bocca ed era sul punto di iniziare a parlare, quando... 
«Ma non lo può suonare il campanello ed entrare dalla porta principale come la gente civile e come le persone normali?» lo apostrofò Vera con voce carica di rimprovero. «E se il suo cavallo mi defeca in giardino, gli escrementi se li raccoglie e se li porta via lei, sia chiaro!» 
«Hanno trovato… hanno trovato… una macchina!» disse esitante la testa dalla criniera arruffata. «L’auto che Miran ha sepolto nella neve lo scorso autunno! Per il concorso a premi! È stata trovata da alcuni sciatori, l’hanno trovata adesso allo Strapiombo del bombo!» 
«Stojan, ma per cortestia, e perché crede ci interessi qualcosa di questa storia? Non vede che stiamo pranzando? Persino i cani amano mangiare in santa pace! Ci sta importunando!» 

«Nella macchina hanno trovato... Roman!»

Ci fu un acuto tintinnio. Senza volere, col rumore provocato dalla caduta del cucchiaio, aveva attirato su di sé gli sguardi di tutti l’unica persona seduta al tavolo da pranzo che fino a quel momento aveva tranquillamente continuato a consumare il pasto senza dire né A né B, nonostante fosse stata esplicitamente chiamata in causa almeno una volta nel corso della conversazione di prima – e cioè nella fattispecie come l’ottima cuoca cui si doveva il gustoso brodo di carne con tagliolini che stavano appunto mangiando. Per secondo, i membri della famiglia avrebbero avuto l’opportunità di gustare delle patate in tecia eccezionali e l’arrosto di maiale che aveva preparato con le sue diligenti manine. Ma sarebbe stato servito per davvero? Le mani di Vlasta ora tremavano così forte che non riusciva a reggere nemmeno un cucchiaio, figurarsi se potevano afferrare il tegame sul fornello con le patate ancora a riscaldare o la teglia con l’arrosto nel forno. Jan fu colto dalla spiacevole sensazione che il suo soggiorno al borgo natio, che lui si era immaginato come un fine settimana lungo in cui avrebbe prevalentemente sciato, si sarebbe, invece, dilatato in modo imprevedibile. Era come se una delle estremità dello scialle di seta che portava al collo con finta nonchalance, studiata in realtà a tavolino, si fosse incastrata tra i denti dell’ingranaggio di un macchinario. Che tirava e tirava, con forza e insistenza, finché Jan non avrebbe avuto altra scelta, avrebbe dovuto cedere e avvicinare la testa, altrimenti lo scialle gli avrebbe serrato la gola e lui avrebbe fatto la tragica fine di Isadora Duncan. Gli parve fosse stato innescato qualcosa che non sarebbe stato possibile arrestare. Non poteva più fingere di non aver sentito ciò che aveva sentito. O ciò che accadde in seguito. 
«È morto, ha la testa insanguinata, ho visto solo questo e sono venuto subito qui... »
Vlasta allontanò il piatto da sé con irruenza, così di scatto che il brodo schizzò sulla tovaglia cerata a quadretti, e con disgusto, come se nel piatto davanti a sé avesse improvvisamente notato nientedimeno che la testa mozzata e insanguinata di Giovanni Battista. Poi balzò in piedi e corse via dalla cucina, aggirò il banco della reception e sparì oltre la porta con la scritta “WC”. Nella sua corsa precipitosa quasi travolse due ospiti in tenuta da sci perfetta, che erano in attesa alla reception. Per fortuna erano così presi dalla propria conversazione da non prestare troppa attenzione alla donna, alla pazza appena apparsa e scomparsa.
«Sì, ma se prendiamo già il primo giorno l’abbonamento settimanale, dobbiamo essere certi e stracerti che il tempo sarà bello per tutti e sette i giorni» disse lui. 
«Ma se te lo sto dicendo IO che è così. Le previsioni settimanali sono da favola» replicò la donna avvolta in un piumino rosa col colletto bianco in pelliccia, piazzandogli il cellulare sotto il naso. «Guarda, sole fino alla fine della settimana» sentenziò con una nota trionfale nella voce, come se a portare ogni giorno l’astro luminoso in cielo fosse lei in prima persona, o come se la carta meteorologica dell’intero comprensorio sciistico l’avesse elaborata lei. 
«Mh, e va bene. OK. Diciamo che ti credo» disse lui. 
«Ma se non ti resta che credere a me! Ho sempre ragione, io!» disse lei e quando lui allungò la mano come a volerla schiaffeggiare – evidentemente per gioco – aggiunse anche: «Così non solo risparmiamo sullo skipass, visto che quello settimanale costa meno dei singoli giornalieri, ma risparmiamo anche tempo perché non dovremo fare ogni mattina la fila alla biglietteria sulla pista da sci. Senza contare che abbiamo pure uno sconto sull’acquisto di un pass di tre ore per questo pomeriggio!»
La guardò ammirato e scosse il capo, come se non riuscisse a capacitarsi del tesoro che il destino gli aveva fatto incontrare – una donna parsimoniosa e piena di risorse. Lei fece una piroetta su se stessa e si voltò verso il banco della reception proprio nell’istante in cui la porta del bagno si aprì e ne barcollò fuori una donna dal viso bianco come il gesso, il cui incarnato appariva ancora più malsano per via del contrasto con la sua folta massa, nera e spettinata, di capelli. 
«Buongiorno, posso avere, per favore, le chiavi della camera che abbiamo prenotato?» disse la donna nella tenuta da sci perfetta. «Faccia presto però, abbiamo fretta!» 
Vlasta annuì in silenzio, andò dietro al banco della reception, prese il mouse e puntò lo sguardo sullo schermo del computer. Per un attimo ebbe l’impressione che si sarebbe sentita male di nuovo e che avrebbe vomitato la bile sul posto, lì sul banco e sui fascicoli sottostanti, oppure, con un getto altissimo, direttamente addosso ai due ospiti che si erano intanto appoggiati al banco e la guardavano incuriositi. Si ripeté che non aveva nient’altro da espellere, che il suo stomaco era completamente vuoto, che non si stava sentendo male, che non era poi così tanto un male ciò che era accaduto... Poi allungò la mano dietro di sé e senza guardare recuperò le chiavi a memoria. Beh, non proprio a memoria, le tirò fuori dall’unica cassetta delle chiavi ancora occupata. 
«Prego, signori... benvenuti all’Hotel Flajs. Vi auguro un piacevole soggiorno!» disse Vlasta e si sedette sulla sedia, pallida in viso come il cerone dei pagliacci del circo. Una lacrima le scivolò lungo la guancia, ora rassomigliava ancora di più a un pagliaccio. 
«Vlaaaasta! Vieni a finire di mangiare» la richiamò Vera dalla cucina. «Ti si raffredda il brodo! E non ci mettiamo mica a buttare via l’arrosto e le patate?!»

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