Le mie dita, indurite dal lavoro e dalla vecchiaia, mi graffiano gli zigomi ogni volta che asciugo le lacrime che continuano a cadere. Sono sicura che il mare non abbia fine e non capisco, se già mi sento morta dentro, da dove arrivino sempre nuovi dolori. Non dovrebbe esserci pace, quando tutto finisce?
Io il mare non l’ho mai visto, ma i sentieri so come si percorrono. L’acqua nessuno la ferma, che tanto va sempre dove vuole andare, ma io posso indirizzarla e approfittare della sua impetuosità, prima che fugga di nuovo e vada là, oltre i confini, a riempire i vuoti della mia ignoranza. Non ho ancora misurato la grandezza dello stupore che si prova a contemplare gli oceani, sono analfabeta di orizzonti, e non c’è già più spazio dentro di me capace di riempire il mare della curiosità di quegli ispettori là dentro.
Che cosa posso dirgli? Che cosa so io? Se non che non si può tornare indietro? Il mio lutto sarebbe durato tutta la vita, ma comunque potevo conviverci, mi vestivo di nero, compivo i precetti per un’anima che ormai appartiene a Dio, mi astenevo da bizzarri divertimenti - come se avessi potuto averne! - abituandomi a questa vita colorata per sempre di nero. Non avevo però ancora assaggiato il sapore amaro della tragedia che bussa alla porta, annunciando che ogni giorno che sarebbe venuto sarebbe stato più duro del precedente. Solo ora riesco davvero a sentire la violenza dell’abisso, anche se avevo già avuto modo di intuire quanto potesse essere profondo.
Qualche volta mi ritrovavo a pensare che il signor prete fosse in pericolo di vita. Arrivai a dirgli:
«Scappi in Francia, là c’è la sua famiglia e nessuno le farà del male!».
Non ho idea però di quali armi possedesse per scacciare la paura, era come se fosse nato senza debolezze, e mi rispose:
«Sa bene che Cristo ha lottato, pur sapendo che sarebbe morto. Lui sapeva benissimo cosa avrebbe dovuto passare e aveva il potere di liberarsi dalla morte ma, nonostante questo, decise di non scappare».
Che Dio perdoni la mia poca fede, che in parte è paura, e in parte è ignoranza, ma io a quel punto ribattei:
«Lei non è Cristo. Scappi!».
Lui però, con gli occhi come cavalli selvaggi, scrutandomi, mi turbò.
«Se scappo, sono un codardo» e il discorso si chiuse lì.
Ho sempre vissuto in paese, dalla mia vita è stato lavato via qualsiasi particolare avvenimento. Sono una vecchia capace solo di scavare la terra e prevedere il tempo dal colore e dalla velocità delle nuvole che nascono dietro le colline. La povertà era una condizione che sporcava la nostra vita come la terra sporca le unghie dei nostri piedi. I miei figli, però, decisero di affrontarla e io di aiutarli. Volevo per loro più di quanto non volessi per me. Li vidi partire uno dopo l’altro per la Francia. Poi, cominciai a ricevere lettere, soldi, foto dei matrimoni e dei nipoti e disposizioni per far costruire delle case. La mia gioia più grande era quando venivano a trovarmi, anche se le loro famiglie erano sempre più numerose per via dei nuovi arrivati e di sempre nuove esigenze e la mia casa era poco più di un fienile. Bastò vedere le dimensioni delle case che costruirono in paese, i vari oggetti e mobili che comprarono per riempirle, i vestiti che portavano per le diverse occasioni e la quantità di cibo di cui si rifornivano in città, per avere un’idea di quanto non avessi mai potuto dar loro. Me ne rendevo conto, ma non provavo né colpa né tantomeno risentimento. Chi dà quello che ha, non deve più niente.
Un giorno, che già ero vedova, chiamai una vicina e le offrii un dolce perché mi leggesse una lettera della mia Margarida. Scriveva che la figlia maggiore aveva ormai l’età per andare a scuola, e volevano che studiasse in Portogallo. Bene, che la mandasse qui, me ne sarei occupata io! Così chiesi di scrivere alla ragazza, sul foglio da venti centesimi che avevo comprato in città. L’estate seguente, la bambina venne da me per passare le vacanze ma, al momento della partenza dei genitori, che se ne andavano via, lasciandola qui, scoppiò a piangere disperatamente. Mi si spezzò il cuore, ma feci tutto il possibile perché mia nipote si trovasse bene con me. Poi, l’anno dopo, sua sorella ci raggiunse e tutto diventò più facile, perché si consolavano l’un l’altra. Quando volevano combinare qualche marachella parlavano in francese e io facevo finta di arrabbiarmi, ma la cosa mi divertiva.
Così Paula finì le medie e i genitori volevano che andasse al liceo. Ora, com’era possibile dal momento che non esisteva neanche una strada che collegasse la città al nostro paesino? Mandare la ragazza a piedi neanche per scherzo, sarebbe stata più di un’ora e mezzo solo ad andare, senza parlare del maltempo che in campagna si fa sentire sia d’estate che d’inverno. Mia figlia alla fine decise di fare così: mise insieme tutto ciò che aveva, e anche di più, e comprò una casa nella città di Vila Real e mi chiese di andarci a vivere con le ragazze. Mi ci volle un bel po’ di tempo per abituarmi a comprare il cibo già pronto e passare più tempo dentro che fuori di casa, ma a quel punto mi ero talmente affezionata alle ragazze che penso sarei andata ovunque avessero avuto bisogno di me. Finii quindi per sentirmi turista nella mia terra, capace di vedere le cose meglio di chi le vive da dentro. Solo a partire da quando, per il fine settimana o per la chiusura della scuola, cominciai a portare le mie nipoti in paese per lavorare nell’orto - ormai gli animali erano stati mangiati o venduti - solo allora, mi resi conto della miseria in cui da sempre avevamo vissuto. Senza una strada su cui le macchine potessero raggiungere il paese in caso d’urgenza, senza un telefono per parlare con chi era in guerra, o era emigrato, o per chiamare un medico, senza elettricità per attaccare una spina... Adesso capivo che chi usciva da questo esilio non poteva più tornare. Nel mio cuore il dolore si addensava come nubi nere per la lontananza dei figli e dei nipoti e questa sensazione, di separazione così netta, lo rendeva ancora più insopportabile.
La casa dove vivevamo si trova appena si entra in città, passando da Cruz das Almas, verso la Escola Industrial. Era molto bella e aveva un giardino, di cui imparai a prendermi cura a costo della voglia di sporcarmi i piedi di terra. Nonostante fosse una semplice palazzina di due piani, le strade intorno erano fiancheggiate da grandi ville, dove vivevano ingegneri, professori e medici. Uno di loro era il dottor Bento, quello stesso che veniva sempre in paese quando bisognava chiamare il medico e il prete al capezzale di qualcuno. Un altro vicino era il dottor Felismino Morgado, giudice, uomo di poche parole. Al martedì e al venerdì, giorni di mercato, le donne di questi uomini importanti uscivano presto con le domestiche per scegliere i prodotti migliori, prima dell’ondata di gente da tutti i paesi dei dintorni. Io preferivo andare più tardi, per incontrare qualche vicina del paese che mi portasse notizie delle mie parti. Spesso mi chiedevano favori che io facevo con piacere, come andare a consegnare documenti in qualche ufficio o chiedere informazioni alle poste. Stavo sempre a casa e mi avanzava molto tempo, perciò qualsiasi scusa per uscire mi tirava su, tanto più se potevo dare una mano a qualcuno. Del resto mi sentivo una contessa, una nobile, perché non dovevo spaccarmi la schiena per mettere qualcosa sotto i denti, a differenza degli altri, e questi piccoli piaceri che facevo loro servivano a calmare la mia coscienza. Quando presi l’abitudine di andare tutti i giorni a messa, confessai al prete la sensazione, così spiacevole, di essere privilegiata rispetto ai miei compaesani.
Nel frattempo, mia figlia e mio genero cominciarono ad avere molte spese per la casa e decisero di affittarne una parte. Visto che era su due piani, mettemmo in affitto la camera e il salotto giù di sotto. A fianco c’era un bagno privato per l’inquilino. Sempre sullo stesso piano c’erano la sala da pranzo e la cucina, mentre in quello di sopra c’erano le nostre camere e l’altro bagno. A seconda di come ci saremmo accordati con l’ospite, avrei potuto cucinare per lui, visto che non avremmo lasciato l’uso della cucina.
Ora, tra le persone che si presentarono per affittare questa parte della casa, spuntò un prete. Io non decidevo nulla, facevo solo quello che Margarida mi diceva di fare ma, quando le parlai al telefono, ci tenni a farle capire che lo preferivo agli altri. Anzitutto, perché sarebbe stato un buon punto di riferimento e avrebbe potuto essere d’esempio per le mie nipoti che, da parte loro, non mostravano grande interesse per le questioni religiose. E poi c’era un certo non so che. Mi piacque e mi ispirò dei bei sentimenti, credo fosse per questo. Mia figlia fu d’accordo e di lì a poco cominciai a cucinare per quattro. Non passò molto tempo che subito affidai al prete l’educazione delle due ragazze che, andando al liceo, avevano bisogno di una persona responsabile, capace di seguirle negli studi e aiutarle nelle principali evenienze. Io, come ho già detto, sono analfabeta.
Questo dolore è soffocante e in più odio stare in questo posto. Durante tutta la mia vita ho sempre pregato Dio per le stesse cose: liberarmi da peccati mortali, proteggere la salute della mia famiglia, tenermi lontana dallo scandalo, non farmi conoscere la prigione, l’ospedale o il tribunale. Si è già capito che non sono stata ascoltata. Semplicemente, ancora oggi non so quali peccati ho commesso per essermi meritata tutto questo.
Erano passati ormai sei anni da quando avevamo affittato la stanza, e io non potevo essere più contenta del mio ospite. Sempre cordiale, corretto, di buonumore e bravo oratore come pochi. Indubbiamente ero riuscita a far sì che le mie nipoti godessero di un’influenza positiva e, infatti, lo ascoltavano e gli obbedivano, e tutti i consigli che lui elargiva erano per il loro bene. Non mi dimenticherò mai di una sera in cui la più giovane, Lisete, raccontò una bugia mentre stavamo cenando. Non ricordo più di cosa si trattasse, ma sicuramente era qualcosa di poco conto. Il prete se ne accorse e ripeté più volte la stessa domanda, dandole a intendere che poteva correggere la sua risposta. Non ricordo bene se aveva saltato la scuola o se era qualcosa di meno importante. Ricordo però che lui, con molta calma, le fece capire che non credeva in quello che diceva in modo che potesse correggersi, mentre la ragazza, testarda, insisteva a ripetere la stessa cosa. Dopo un po’, senza mai cambiare tono di voce, né usare una sola parola che potesse sminuirla o umiliarla, le fece capire che sapeva che quello che aveva raccontato non era la verità, e che non sopportava le bugie. Non so come ci riuscisse: riusciva a far cambiare loro idea senza bisogno di sgridarle. Perfino io, che non ho mai detto una bugia, mi ritrovai a pensare che già diverse volte, costretta dalle circostanze, ho distorto le cose o non ho raccontato tutto... e che anche questo può voler dire mentire.
Poi, se ne andò. Partì per Lisbona, non so bene a fare cosa, penso a continuare a dare lezioni, come aveva fatto fino a quel momento in seminario.