Certe volte diventa davvero intollerabile. Questo loro fragoroso becchettìo mi ha svegliata. E come se non bastasse, si sono anche messi a litigare per il boccone più ghiotto, altro che riaddormentarmi. Si sente proprio tutto, malgrado i doppi vetri e gli infissi ben serrati. Quello lì vorrebbe un seme di zucca, quell’altro preferirebbe i semi di lino per la loro simpatica croccantezza, i più giovani s’ingozzano voraci di pane sbriciolato, mentre le femmine non ne vogliono sapere delle palline di grasso. Chi l’avrebbe mai detto che tordi bottacci, pettirossi, cinciarelle e verdoni non sono disposti a rimpinzarsi la panza di tutto quello che gli capita sotto becco. Sono proprio schizzinosi gli abitanti di questo nostro parco. Chi l’avrebbe mai detto. E chi direbbe mai anche tanto altro ancora, lo so, lo so. Ma una volta appresi questi particolari, e anche tutto il resto, tapparsi le orecchie diventa praticamente impossibile. Anche dimenticare, credetemi.
Tutto ebbe inizio nella giornata di scienze. A scuola la maestra, nell’ora introduttiva alla scoperta della natura, prima ci aveva spiegato che gli scienziati hanno classificato gli uccelli in più ordini e sottospecie e che, tra le varie categorie, c’è l’insieme degli uccelli canterini che tanto ci rallegrano con il proprio canto melodioso. Poi iniziò la giornata di scienze vera e propria, e venimmo sguinzagliati nel bosco nei pressi della scuola per poter osservare gli animali che l’abitano. Ci distribuirono delle schede didattiche con il compito di disegnarvi e scrivervi sopra tutto quello che vedevamo e udivamo. I miei compagni di classe si sparpagliarono per il sottobosco, per rispuntarne fuori con imbranati disegnini di lumaconi, limacce, scoiattoli, gazze, cinciallegre e qui e lì anche di qualche bruco. Grande fu l’entusiasmo scatenato da una compagna di classe e dalla sua scheda, su cui aveva fatto lo schizzo di nientepopodimeno che – un cinghiale. In seguito si venne tuttavia a scoprire che, in realtà, aveva frainteso il respiro rantoloso di un bulldog francese portato a passeggiare nel bosco da qualcuno ed era scappata a gambe levate in preda al panico, convinta di essere sfuggita al pericoloso suino per un soffio. La maestra per questo le abbassò il voto, il che sollevò non poca polvere. Ma neanche lontanamente tanta quanta ne sollevai io, o meglio, la mia scheda.
All’inizio la maestra non mi voleva mettere proprio nessun voto. Dopo un’ora mi fece cenno di avvicinarmi alla cattedra, mi prese molto delicatamente per mano e con voce gentile mi pregò di far venire a scuola i miei genitori. Nonostante non fossi certo un’alunna particolarmente brillante, mi sembrò eccessivo, secondo me mi ero impegnata al massimo, per questo mi si riempirono gli occhi di lacrime. La maestra cercò di abbracciarmi per consolarmi, io invece, mortificatissima, mi divincolavo. Alla fine mi riconsegnò la mia scheda con su tracciato soltanto un grande punto interrogativo rosso. Solo allora scoppiai in un pianto inconsolabile! In un unico scarabocchio rosso aveva sminuito tutte le mie aspirazioni scientifiche, tutte le mie – ehm trascrizioni delle conversazioni che mi erano giunte all’orecchio dall’alto degli alberi e dei rami sovrastanti. A distinguere la mia scheda dalle relazioni della giornata di scienze consegnate dai miei compagni di classe, era il dettaglio che loro, se avevano avvistato un picchio avevano disegnato un generico uccello che percuote un tronco col becco, scrivendo sotto «Toc, toc, toc». Anche io avevo disegnato un picchio, ma in calce avevo scritto qualcosa sullo stile di: «Porca puttana, ma ancora per quanto dovrò continuare a picchiare qui prima di trovare lo stramaledetto primo strato di coleotteri, merda, sto morendo di fame e invece niente». Avevo scritto quello che avevo udito. Anche quando non ne avevo capito bene il senso: «Uffa, qualcuno si da una mossa e mi feconda?!» si era spanso per il bosco per becco di una giovane femmina di merlo. Un maschio di tortora orientale, di cui avevo inconsapevolmente intercettato il richiamo di accoppiamento, aveva invece detto: «Dov’è qualche uccellina piccina picciò, così me la trombo un po’?».
Per i miei genitori che, da bravi psicologi, fino a quel momento non erano mai stati particolarmente severi, fu la goccia che fece traboccare il vaso. No, questa non è l’espressione giusta. Ecco, assunsero un atteggiamento più cauto nei miei confronti, parlavano con me sussurrando e poi alla fine, su insistenza della nonna, mi iscrissero a pianoforte e a un corso di danza espressiva. Odiavo entrambe le cose dal profondo del cuore, ma da allora in poi i martedì e i giovedì pomeriggio divennero l’occasione per poter andare da sola in centro, dove, in quella manciata di minuti prima dell’arrivo dell’autobus che mi riportava in periferia, potevo ascoltare l’allegro chiacchericcio dei piccioni di città. Nelle giornate più miti gironzolavo in preda all’estasi e tutta imbambolata nei pressi della fontana, osservandoli mentre se la spassavano nell’acqua stagnante. Si schizzavano e si prendevano in giro, alcuni avevano anche la lingua piuttosto biforcuta, mai offensiva però. Cosa non avrei dato per potermi unire a loro! Forse lo sapevano anche loro cosa mi frullava per la testa visto che, per miracolo, mi permettevano di avvicinarmi tantissimo. Non è mai accaduto che qualche piccione se ne volasse via, sbattendo le ali spaventato.
Se la vista di una bambina che si lascia spruzzare dai piccioni nella fontana cittadina ha un che di leggiadro, quasi uno scorcio da cartolina, una fanciulla adolescente che al viaggio di maturità si concentra sui gabbiani anziché abbandonarsi alle consuete perversioni pubescenti, si ritrova invece ben presto affibbiati nomignoli e attributi niente affatto clementi da coetanei impietosi. Giunta all’ultimo anno di liceo ero ormai quasi pronta a credere ai loro insulti, ma me ne infischiavo. Sono bislacca, embè, dissi tra me e me quella mattina presto, poco prima dell’alba, mentre, da qualche parte sulla costa spagnola, stavo ferma sul molo intenta a fissare uno stormo di gabbiani che sorvolava un piccolo peschereccio. A orecchie tese vagavo con lo sguardo nell’infinito azzurro cielo, incurante del fatto che i miei compagni di classe, al momento impegnati a sprofondare uno dopo l’altro in un sonno alcolico e delirante in camere d’albergo da quattro soldi, non sentissero la mia mancanza. All’improvviso la fulgida sfera colpì la superficie luccicante del mare e nell’immensità del momento, io distesi le braccia, e un vero e proprio autentico garrito di gabbiano mi proruppe dalla gola. Un vecchietto rimasto sul molo a riparare le reti che prima, nella penombra mattutina, non avevo neanche notato, trasalì.
Nel frattempo, anche i miei genitori avevano abbandonato qualsivoglia speranza che la figlia, seguendo le loro orme, avrebbe optato per una qualche disciplina umanistica – era più che evidente, infatti, che le persone, di sesso maschile o femminile che fossero, non mi andavano particolarmente a genio. Mia madre perciò si adoperò con discrezione affinché potessi iscrivermi a biologia nonostante dei voti alquanto bruttini nelle materie tecnico-scientifiche.
Il mio ingenuo confidare in un fato finora avverso che adesso, invece, all’università, mi avrebbe finalmente fatto incrociare anime affini dalle sembianze umane, si dimostrò del tutto infondato, fin dalle prime lezioni. Compagni di studi e docenti si rivelarono essere un branco di cinici insensibili dal cuore di pietra, interessati più alle specifiche caratteristiche morfologiche e anatomiche degli invertebrati e agli equivalenti calorici e ai quozienti respiratori, gentaglia che non si è mai chiesta, neanche una volta, cosa PENSASSERO gli animali che dissezionavamo – e non solo sulla carta. Per questo i miei momenti migliori non li ho vissuti in aula o in laboratorio, ma sull’acciottolato di ghiaia del parcheggio antistante l’università. Lì vicino c’era, infatti, un’albereta popolata da una nutrita colonia di cornacchie grigie. Quegli intelligenti volatili, annoiati dalla routine quotidiana, come del resto tutti gli animali pensanti, si erano inventati un passatempo abbastanza complicato incentrato sulle targhe delle automobili in arrivo. Ovviamente, avendole sentite battibeccare tra di loro e accusarsi reciprocamente di imbrogli e conteggi sbagliati, ci avevo messo ben poco a capire in cosa consistesse. L’essenza del gioco era nelle scommesse: si scommetteva sulla somma dei numeri di targa delle auto in arrivo, qualcosa dipendeva anche dall’ora e dal giorno della settimana, piuttosto complicato insomma, ammetto di aver un po’ dimenticato, purtroppo non sono così intelligente come loro.
Ogni nuova autovettura che si parcheggiava, veniva accolta dalle cornacchie grigie con versi che i miei colleghi, e la gente in generale, interpretavano come insistente gracchìo di volatili importuni, mentre io invece sapevo che si stavano rallegrando di questo o di quell’altro numero, stavano rincuorando una giocatrice cui non si prospettava nulla di buono, o che, non di rado verso la fine, le più vanagloriose e arroganti stavano già apertamente festeggiando la quasi vittoria. Ascoltarle era puro godimento e avrei fatto di tutto pur di potermi unire a loro. Trascorrevo ore e ore a fissare malinconica verso l’alto, osservandole saltellare da un ramo all’altro nelle chiome di quei pioppi e ascoltandole. Che strano, a pensarci non ho mai intercettato neanche mezza parola su di me, sebbene le cornacchie non si contenessero certo con mordaci osservazioni e sentenze a scapito dei miei colleghi. Questi ultimi, a loro volta, giocavano la propria partita: mi studiavano dalle finestre dell’aula, facendo a gara a chi avrebbe escogitato l’espressione più denigratoria del mio comportamento.
In quattro lunghi anni non riuscii a trovare alcun terreno comune con i compagni di corso e così, quando spuntai dalla lista anche l’ultimo esame e non mi restava che la laurea, provai autentico sollievo. Scelsi come relatore il professore di Etologia, mentre il titolo provvisorio della mia tesi di laurea triennale era Impatto del cambiamento climatico, in particolare del disseccamento degli ambienti palustri sul verso dell’albanella reale, del chiurlo maggiore e dello stiaccino. Le suddette specie di uccelli vivono tutte nel Ljubljansko Barje, la palude di Ljubljana, e quindi ho trascorso un anno e mezzo tra i prati alluvionati di Barje in tutte le condizioni climatiche possibili e immaginabili. In primavera mi congelavo e contemplavo le nebbioline levantesi dal terreno torboso nelle ore prima dell’aurora, d’estate accompagnavo con sguardo sollevato il dileguarsi della fulgida sfera da qualche parte dietro il Monte Krim, lasciando così il palco agli uccelli che più di tutto prediligono farsi vivi al tramontar o allo spuntar del sole. Mi ero messa d’accordo con i membri dell’associazione dei cacciatori e mi ero arrangiata un laboratorio sul campo in una delle loro postazioni di caccia. Vi avevo portato i miei strumenti di lavoro: un rivelatore acustico, un telescopio portatile, le cuffie e un quadernetto.
Era fine agosto. Nell’aria vibrava una calura che prometteva tempesta. Madida, col vestito appiccicato addosso, scacciavo di continuo tafani molesti e zanzare seccatrici. Faceva un caldo così soffocante che gli uccelli s’erano ammutoliti. Poi giunse uno stormo di rondini. Si distribuirono sui fili dell’alta tensione e si misero a garrire animatamente sull’indomani, su quando cioè sarebbero ripartite alle prime luci dell’alba. Cinguettavano tra di loro sui laghi e i fiumi che avrebbero sorvolato, sull’infinito azzurro oceano mare su cui per lunghe ore non avrebbero potuto né riposarsi né rilassare le ali, rammentavano le verdeggianti verdi praterie dove avevano svernato negli anni passati e che ogni volta le accoglievano con cibo in abbondanza e gradevole tepore, perché mai non dovrebbe essere così anche quest’anno?
Seppi allora: adesso o mai più. Riposi le cuffie. Non m’importava della laurea. Non m’importava di certificati comprovanti la mia formazione, né dei professori e dei colleghi o di mia madre e mio padre, in effetti non mi veniva in mente neanche un essere umano cui sarei potuta mancare, se me ne fossi andata. Se mi fossi aggregata allo stormo e me ne fossi volata via con lui. Perché no, allora? Mi arrampicai sulla ringhiera della postazione, feci dei battiti di prova con le braccia e gracchiai a squarciagola il saluto rondinesco. Poi mi diedi una spinta e mi librai in volo.
Fu un cacciatore a trovarmi, a notte inoltrata. Mi hanno riferito che ha chiamato con il cellulare l’ambulanza che mi ha poi trasportata in ospedale. Ci sono volute due settimane per guarire da tutte le ferite riportate, che qui, però, non mi va di stare a elencare. Tra le varie cose, ho subito una commozione cerebrale e mia mamma, che viene spesso a farmi visita, ha espresso a tal proposito la speranza che il colpo alla testa ne avesse spazzato via stupidaggini come il mettersi a origliare gli uccelli. Usò proprio queste parole. Ne ho dedotto che non desiderava io continuassi con il mio lavoro scientifico, anzi ancor di più, che per lei è fonte di vergogna e imbarazzo. Ho deciso quindi di accontentarla in tutto, anche per questo motivo ho acconsentito alle cure.
Sono stata perciò trasferita dalla Traumatologia del Policlinico di Ljubljana in un’altra clinica. A nord, nella Gorenjska, all’interno del bellissimo castello di Begunje. Gli ambienti sono straordinariamente ben attrezzati, ho una stanza tutta per me e non mi manca niente. A breve forse chiederò a quel medico con cui parlo molto, ovviamente non di uccelli, di darmi l’autorizzazione per portare qui le apparecchiature che ho lasciato alla postazione di caccia. Vorrei continuare con il mio lavoro, mia madre però non deve assolutamente scoprirlo. Sarà anche vero che qui non ci sono stiaccini, chiurli e albanelle reali, ci sono, però, tantissime altre specie altrettanto loquaci. Una famiglia di tordi bottacci che frequenta una casetta per uccelli di questo nostro parco, ad esempio, è incredibilmente divertente. Potrei stare ad ascoltarla per ore e ore, e alle volte rido fino alle lacrime delle loro trovate e battute. Il mio preferito è un esemplare maschio della nidiata dell’anno scorso. Non riesco neanche a immaginare di trascorrere un’intera giornata senza poterlo vedere o sentire. È infinitamente spiritoso e così mi sto appuntando tutto in un quaderno speciale: sulla pagina di sinistra le sue affermazioni e sulla pagina di destra le mie repliche. Lo so, lo so, lui non mi capisce, eppure desidero dal profondo del cuore che un giorno gli potrò finalmente leggere qualche pagina del mio diario segreto.