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- "O Dilema do Guarda-Chuva Castanho Primeira Porta à Direita Nada" translated to PT by Simion Doru Cristea,
- "El dilema del paraguas marrón La primera puerta a la derecha Nada" translated to ES by Corina Oproae,
- "Het dilemma van de bruine paraplu Eerste deur rechts Niets" translated to NL by Jan Willem Bos,
Il dilemma dell’ombrello marrone Prima porta a destra Niente
Si è trovato una volta, nel mondo reale, un ombrello marrone. Era di quel genere di ombrelli grandi, sotto il quale entravano due persone, e aveva un manico di legno. Risiedeva in un magazzino di surgelati in un angolo pol veroso. In esso alloggiavano alcuni ragni con le gambe lunghe. Una sera… – era una sera d’estate – l’ombrello aprì gli occhi e decise: “Vado”. Il problema era che l’ombrello marrone non aveva i piedi e non poteva andare da nessuna parte da solo. Qualcuno doveva portarlo.
Il secondo giorno, al mattino, Carl ha aperto il negozio come al solito e si è seduto dietro la cassa, in attesa dei clienti. Sarebbe stato un giorno speciale – Carl faceva trecentodieci anni. Era una buona età per sposarsi e avere dei figli. Doveva esserne felice. Le sue piccole corna purpu ree riflettevano la luce del sole. Che fortuna nascere in un mondo perfetto! Proprio quando rifletteva così profondamente, la campanella della porta suonò e nel negozio entrò una ragazzina. Comprò un gelato di noci, poi se ne andò inosservata. Carl sospirò. Quanto lontano era ancora il giorno in cui anche lui sarebbe stato perfetto! Gli mancavano ancora molti pezzi – voleva soprattutto ricevere un cuore. Di solito, i cuori erano rossi e si pre sentavano così
Te li avvitavano in petto, secondo quanto aveva sentito.
Al negozio entrò Anette, la quale sorridendo, lo guardava con i suoi occhi grandi e arancioni. Carl sorrise anch’egli e disse:
– Ciao, come va? Non ci vediamo da molto tempo!
– Bene, credo... Senti, mi ha mandato il Sig. G per portargli quell’ombrello marrone.
– L’ombrello marrone?!
Carl era visibilmente sorpreso. Che avrebbe dovuto farsene il Sig. G di quel vecchio ombrello?
– Sì, esattamente quello, – disse Anette mostrando l’ombrello col dito.
– Bene… prendilo, – disse Carl sconcertato. Ma cosa ha in mente di farci?
– Non ne ho idea! – rispose lei alzando le spalle.
Carl le porse l’ombrello e lei lo prese dal manico.
– Torna da queste parti!
Anette annuì.
– A proposito, – disse lei fermandosi. – Hai visto che la nuova casa per il viale sarà ristrutturata?
– Sì.
– Ebbene, è lì che mi trasferisco quest’anno, – disse lei facendo l’oc chiolino.
Egli sorpreso:
– Oh… e cosa pensi di fare con il lavoro alla Shoe Area?
– Non ci ho ancora pensato. Non credo sia poi tanto importante. Comunque, ho solo tre anni per ottenere le lenti.
– Eheheh, mi fa piacere sentirlo. E con il Senso come stai? – Ancora lo cerco, – rispose lei ridendo.
L’ombrello marrone era molto felice. Alla fine sarebbe andato via da quel luogo polveroso. Magari avrebbe ottenuto anche lui un cuore. Anette va via dopo pochi secondi trascinandosi dietro l’ombrello. Il Sig. G l’aspettava impaziente al castello in collina. Il castello era fatto da travi e tende prese da lei. Non aveva alcun tipo di tetto. Per questo il Sig. G aveva bisogno dell’ombrello. Il Sig. G aveva una barba molto lunga e un cerchio luminoso sulla testa. Alcuni lo chiamavano addirittura Dio. Anette lavorava da molto tempo per il Sig. G.
Poteva avere cent’anni. Ancora poco e avrebbe preso le lenti. Con esse sarebbe stata capace di vedere quanto ad ognuno restasse ancora da vivere. Chiaramente, non poteva dirlo, però poteva guidarli affinché non vivessero invano gli ultimi anni. Gli ultimi erano quelli più importanti – se li perdevi, non avevi alcuna chance per un secondo cuore. E con un cuore solo era impossibile trovare il Senso.
L’ombrello marrone non sapeva tutte queste cose. Probabilmente non le avrebbe mai sapute. Il Sig. G lo spaventava. L’avrebbe aperto in caso di pioggia e probabilmente si sarebbe raffreddato. Sarebbe sicuramente andata così, lo sapeva. Aveva già sentito di altri che avevano sofferto così. Nella discarica.
Il signor G lo ispezionò da tutti i lati, lo aprì e lo chiuse più volte. Sì, era funzionante. E di buona qualità. Come si fosse perso in un negozio di surgelati, non lo sapeva. Comunque, non aveva più importanza. Il Sig. G avrebbe raccolto tutti gli ombrelli del mondo reale. Poi quelli dei videogio chi e le foto con gli ombrelli. Poi gli ombrelli degli ombrelli. Poi il gusto e l’odore degli ombrelli. Poi doveva bollirli tutti dentro un alambicco e creare un Ombrello Filosofale. E tutto ciò nel corso di sette giorni. Era incredi bile! Grandioso! Assolutamente ridicolo! Ma al Sig. G non interessava. A Lui piacevano soltanto gli ombrelli.
Il Sig. G ne conosceva il Senso? Come poteva conoscerlo! Non lo cercava neanche più. E quindi dove potevano trovarlo gli altri? Ma sem plice – non lo trovavano! Ma questo non gli impediva di cercarlo. Il Sig. G sapeva che l’Ombrello Filosofale sarebbe stata la più grande realizzazione di tutti i tempi. Peccato che tutto ciò non significhi nulla.
Prima Porta a Destra
Sarebbe dovuto essere semplice. Prosegui per il corridoio, la prima porta a destra, dai un calcio alla porta, osservi con soddisfazione i loro volti per plessi, osservi come la perplessità si trasforma in paura quando estrai la pi stola e, sorridendo, premi il grilletto. E poi premi di nuovo, e di nuovo. Fin quando non rimane più nessuno in piedi a parte te. Poi vai a bere un caffè. Senza problemi. Ed anche senza zucchero. Nessuno saprà che sei stato tu, perché di fatto tu non esisti. Ti trovi in possesso del tuo proprio certificato di morte. È bizzarro guardarlo così. Senti un nodo allo stomaco. Lo stesso nodo che senti quando porti i fiori alla tua tomba. Invece, apri elegante mente la porta, sorridi. Ti viene offerto un tè. Completi un formulario. Fin quando, realizzi, ti sei sposato con la cassiera e vostro figlio si chiama Hector. Vi siete trasferiti ovviamente in un’altra città, tu vivi sotto il nome di un tipo che è morto davvero. Qualcuno ti ha sbrigato questa faccenda e tu gli hai dato una borsa con dei soldi a mezzanotte, da qualche parte per una strada nel bel mezzo del nulla. Lavori in un bar di notte, il giorno cerchi di vendere protesi. Vuole un piede? Una mano? Sono molto resi stenti, non serve toglierli quando fate il bagno. Abbiamo ovviamente anche molti colori. Signori e Signori con la nuova mano verde sarete l’a nima di qualunque festa! Tuo figlio si ubriaca con una banda di scapestrati e ruba dai negozi. Vende erba tra i vicoli infetti e una volta si è preso una sbronza e ha rotto la testa ad un ragazzino. Tua moglie ti detesta e consi dera colpa tua tutto ciò che non va bene, ma non te lo direbbe per nulla al mondo. Ha un lavoro pagato meglio del tuo e sospetti che se la faccia col capo. Inizi a divenire cosciente della tua propria immaterialità. Sebbene esteriormente la tua vita sembri ordinaria, tu di fatto non esisti. Così che un giorno scompari.
L’uomo che non esiste prende la sua giacca di pelle marrone ed esce fuori di casa. Non prende né le chiavi, né il telefono. Lascia in cambio un biglietto dicendo che non tornerà più, così che essi non lo diano per di sperso e gli mandino la polizia dietro.
Per la prima volta dopo molto tempo, inizia a sentirsi reale. Non è nessuno. Non è nessuno ma potrebbe essere assolutamente chiunque. Non è legato assolutamente a niente. Può andare ovunque. Nella sua mente, ancora persiste l’immagine di quel corridoio. Forse gli è sempre di spiaciuto di non aver premuto il grilletto. Forse sarebbe stata la stessa cosa. Esistono molte situazioni senza uscita, ed esistono anche uomini che le chiamano “destino”. Così come se qualcuno ti avesse marchiato e indiffe rentemente da come ti comporti, insiste nel farti soffrire. Al contrario, puoi sempre voltarti e dartela a gambe. Forse quel giorno sarebbe servito solo bere il tuo caffè e tenerti lontano da quel palazzo.
Niente
Le porte si chiudono una dietro l’altra. Non è rimasto niente. È tanto buio che non puoi vederti la faccia. Il fiume scorre ininterrotto verso altri luoghi più eterni. Si spengono i colori e si fa notte nella città di Niente. Niente è una piccola città in una zona montana, qui gli uomini vivono un giorno per l’altro, le loro memorie sono come una nebbia densa e lenta. Sono pic coli di statura e non molto loquaci. Si vestono con abiti identici, così da rendere impossibile capire quali siano gli uomini e quali le donne. Tutti hanno i capelli corti e neri, e i loro vestiti sono di colore giallo. Assicurano la loro sopravvivenza grazie alla coltivazione delle rape. Loro coltivano, loro mangiano. Sembra che se la cavino piuttosto bene, così da non avere nessun legame con il mondo esterno. I vestiti e gli altri oggetti necessari vengono confezionati dall’estratto di rapa. Possono fare assolutamente tutto dalle rape, anche il filo interdentale. Ci sono dentisti molto bravi nella città Niente.
Lei è arrivata lì in un mattino d’autunno sul tardi, perdendosi per quei terreni a causa del fatto di aver sbagliato il momento in cui saltare col paracadute. Ѐ saltata un secondo prima, per questo, il luogo dell’atterrag gio è stato sufficientemente deviato, anche perché batteva vento.
All’inizio, l’esistenza di questo tipo di città le è sembrata impossibile, ma vivendoci per un po’ di tempo, ha trovato che era molto più plausibile della sua esistenza precedente dentro una grande metropoli. Quei piccoli uomini parlavano una lingua semplice, che in confronto faceva sembrare ogni altra lingua complicata. Avevi bisogno al massimo di un giorno per imparare quella lingua. Gli abitanti della città Niente non conoscevano altre lingue.
Şami si intendeva bene con quegli uomini, perché erano molto di versi rispetto agli uomini abituali. Non parlavano molto, non manifesta vano interessi, non avevano aspirazioni. Conducevano semplicemente la loro vita in un modo banale, pensando più che altro a un “domani” possi
bile. Non ridevano e non piangevano, Şami credeva che fosse possibile perché erano felici al 100%. O no. Si svegliava al mattino, si lavava, man giava, poi andava ad aiutare i padroni al campo di rape. Viveva presso una famiglia formata da un uomo e una donna approssimativamente di trent’anni, non avevano bambini. Tuttavia, pensandoci meglio, nessuna fa miglia della città aveva bambini. Perché? Quindi come si moltiplicavano? Şami presupponeva l’impossibile: forse erano immortali! Probabilmente per questa ragione avevano queste vite così semplici e noiose. Volti piatti e inespressivi.
Dopo aver aiutato la famiglia al campo di rape, Şami pranzava sola sotto un gazebo in giardino. Nonostante fossero sempre rape, sembrava avessero un gusto ogni volta diverso. Il pranzo era preparato dalla gover nante di casa. Dopo pranzo, Şami era solita disegnare qualcosa, oppure semplicemente respirava l’aria fresca del monte durante lo spettacolare tra monto. Si coricava molto presto, prima di coricarsi però si rilassava un po’, lasciando soltanto che quella strana luce le entrasse nella pelle. Era la luce di una lampada speciale fatta di rape. La luce era uguale ma le ombre ave vano una sfumatura strana. Comunque, per Şami, la luce di una lampada era così speciale che osservava persino la sua ombra. Chiudeva gli occhi sotto le lenzuola morbide e dormiva spesso senza sognare. Al mattino si alzava e ricominciava da capo.
Così son passati molti giorni. Il tempo perdeva valore con facilità, e l’abitudine si era installata sul suo volto con brutalità. La sua espressione diventava neutra. Era così sola che neanche sapeva come riconoscere la soli tudine. Un giorno, ha iniziato anche lei a portare vestiti gialli. Ha tagliato i capelli corti. Era più comodo così. Si è specializzata nella raffinazione del vino di rapa. Il suo respiro aveva l’odore di una candela spenta da molto.
Il paracadute con il quale era atterrata l’aveva bruciato tempo addie tro. I suoi vecchi vestiti erano ancora dentro un baule. I suoi orecchini ad dobbavano il candeliere da ormai qualche anno. Su di essi era colata la cera ed erano come sigillati dentro. La loro luminosità era persa.
Era inverno quando aggiunse il cane a Niente. Era molto affaticato dal viaggio. Voleva riposarsi da qualche parte, quanto prima possibile. Şac non era un cane abituale – egli possedeva il linguaggio e l’intelligenza dell’essere umano. Viaggiò per tutto il mondo e vide moltissime cose mira colose e spaventose allo stesso tempo. Ma niente avrebbe potuto prepararlo a Niente. Ovunque guardasse, vedeva rassegnazione e stupidità. Ribrezzo. Letargia. Şac si sentiva strano, come se lo stomaco gli si fosse ristretto dentro una pelliccia di gatto. Una spiacevole sensazione! Passeggiava dentro un mondo arido. Poi ha trovato Şami. Gli è subito sembrato che non fosse una locale e le ha chiesto:
– Che ci fai qui?
Lei lo ha guardato storto.
– Ci sto. Vivo qui.
– Ah, – sembrava capire. – E ti piace qui? – ha chiesto lui. – Sì, – ha risposto lei, secca.
Şac non sapeva più che dire, quindi ha taciuto. Şami si è voltata in dietro ed è entrata in casa. Nemmeno un cane parlante la impressionava più ormai.
Şac chiuse gli occhi e si addormentò sul tappeto di rape di fronte alla casa di lei. Sospirando, è diventato un tutt’uno col tappeto ed è sparito completamente. Nessuno si ricorda di averlo più incontrato. Nella città Niente ci sono delle brave persone. Sono scomparse anche loro.