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Il dilemma dell’ombrello marrone Prima porta a destra Niente

Translated from RO to IT by Maria Alampi
Written in RO by Anna Kalimar

Si è trovato una volta, nel mondo reale, un ombrello marrone. Era di quel  genere di ombrelli grandi, sotto il quale entravano due persone, e aveva un  manico di legno. Risiedeva in un magazzino di surgelati in un angolo pol veroso. In esso alloggiavano alcuni ragni con le gambe lunghe. Una sera… –  era una sera d’estate – l’ombrello aprì gli occhi e decise: “Vado”. Il problema era che l’ombrello marrone non aveva i piedi e non poteva andare  da nessuna parte da solo. Qualcuno doveva portarlo. 
Il secondo giorno, al mattino, Carl ha aperto il negozio come al  solito e si è seduto dietro la cassa, in attesa dei clienti. Sarebbe stato un  giorno speciale – Carl faceva trecentodieci anni. Era una buona età per  sposarsi e avere dei figli. Doveva esserne felice. Le sue piccole corna purpu ree riflettevano la luce del sole. Che fortuna nascere in un mondo perfetto!  Proprio quando rifletteva così profondamente, la campanella della porta  suonò e nel negozio entrò una ragazzina. Comprò un gelato di noci, poi se  ne andò inosservata. Carl sospirò. Quanto lontano era ancora il giorno in  cui anche lui sarebbe stato perfetto! Gli mancavano ancora molti pezzi –  voleva soprattutto ricevere un cuore. Di solito, i cuori erano rossi e si pre sentavano così 

Te li avvitavano in petto, secondo quanto aveva sentito. 
Al negozio entrò Anette, la quale sorridendo, lo guardava con i suoi  occhi grandi e arancioni. Carl sorrise anch’egli e disse: 
– Ciao, come va? Non ci vediamo da molto tempo! 
– Bene, credo... Senti, mi ha mandato il Sig. G per portargli  quell’ombrello marrone. 
– L’ombrello marrone?! 
Carl era visibilmente sorpreso. Che avrebbe dovuto farsene il Sig. G  di quel vecchio ombrello? 
– Sì, esattamente quello, – disse Anette mostrando l’ombrello col  dito. 
– Bene… prendilo, – disse Carl sconcertato. Ma cosa ha in mente di  farci? 
– Non ne ho idea! – rispose lei alzando le spalle. 
Carl le porse l’ombrello e lei lo prese dal manico. 
– Torna da queste parti! 
Anette annuì.

– A proposito, – disse lei fermandosi. – Hai visto che la nuova casa  per il viale sarà ristrutturata?  
– Sì. 
– Ebbene, è lì che mi trasferisco quest’anno, – disse lei facendo l’oc chiolino. 
Egli sorpreso: 
– Oh… e cosa pensi di fare con il lavoro alla Shoe Area?  
– Non ci ho ancora pensato. Non credo sia poi tanto importante.  Comunque, ho solo tre anni per ottenere le lenti. 
– Eheheh, mi fa piacere sentirlo. E con il Senso come stai? – Ancora lo cerco, – rispose lei ridendo. 
L’ombrello marrone era molto felice. Alla fine sarebbe andato via da  quel luogo polveroso. Magari avrebbe ottenuto anche lui un cuore. Anette va via dopo pochi secondi trascinandosi dietro l’ombrello. Il  Sig. G l’aspettava impaziente al castello in collina. Il castello era fatto da  travi e tende prese da lei. Non aveva alcun tipo di tetto. Per questo il Sig. G  aveva bisogno dell’ombrello. Il Sig. G aveva una barba molto lunga e un  cerchio luminoso sulla testa. Alcuni lo chiamavano addirittura Dio.  Anette lavorava da molto tempo per il Sig. G. 
Poteva avere cent’anni. Ancora poco e avrebbe preso le lenti. Con  esse sarebbe stata capace di vedere quanto ad ognuno restasse ancora da  vivere. Chiaramente, non poteva dirlo, però poteva guidarli affinché non  vivessero invano gli ultimi anni. Gli ultimi erano quelli più importanti – se  li perdevi, non avevi alcuna chance per un secondo cuore. E con un cuore  solo era impossibile trovare il Senso. 
L’ombrello marrone non sapeva tutte queste cose. Probabilmente  non le avrebbe mai sapute. Il Sig. G lo spaventava. L’avrebbe aperto in caso  di pioggia e probabilmente si sarebbe raffreddato. Sarebbe sicuramente  andata così, lo sapeva. Aveva già sentito di altri che avevano sofferto così.  Nella discarica. 
Il signor G lo ispezionò da tutti i lati, lo aprì e lo chiuse più volte. Sì,  era funzionante. E di buona qualità. Come si fosse perso in un negozio di  surgelati, non lo sapeva. Comunque, non aveva più importanza. Il Sig. G  avrebbe raccolto tutti gli ombrelli del mondo reale. Poi quelli dei videogio chi e le foto con gli ombrelli. Poi gli ombrelli degli ombrelli. Poi il gusto e  l’odore degli ombrelli. Poi doveva bollirli tutti dentro un alambicco e creare  un Ombrello Filosofale. E tutto ciò nel corso di sette giorni. Era incredi bile! Grandioso! Assolutamente ridicolo! Ma al Sig. G non interessava. A  Lui piacevano soltanto gli ombrelli. 
Il Sig. G ne conosceva il Senso? Come poteva conoscerlo! Non lo  cercava neanche più. E quindi dove potevano trovarlo gli altri? Ma sem plice – non lo trovavano! Ma questo non gli impediva di cercarlo. Il Sig. G sapeva che l’Ombrello Filosofale sarebbe stata la più grande realizzazione  di tutti i tempi. Peccato che tutto ciò non significhi nulla. 

Prima Porta a Destra


Sarebbe dovuto essere semplice. Prosegui per il corridoio, la prima porta a  destra, dai un calcio alla porta, osservi con soddisfazione i loro volti per plessi, osservi come la perplessità si trasforma in paura quando estrai la pi stola e, sorridendo, premi il grilletto. E poi premi di nuovo, e di nuovo. Fin  quando non rimane più nessuno in piedi a parte te. Poi vai a bere un caffè. Senza problemi. Ed anche senza zucchero. Nessuno saprà che sei stato tu,  perché di fatto tu non esisti. Ti trovi in possesso del tuo proprio certificato  di morte. È bizzarro guardarlo così. Senti un nodo allo stomaco. Lo stesso  nodo che senti quando porti i fiori alla tua tomba. Invece, apri elegante mente la porta, sorridi. Ti viene offerto un tè. Completi un formulario. Fin quando, realizzi, ti sei sposato con la cassiera e vostro figlio si chiama  Hector. Vi siete trasferiti ovviamente in un’altra città, tu vivi sotto il nome  di un tipo che è morto davvero. Qualcuno ti ha sbrigato questa faccenda e  tu gli hai dato una borsa con dei soldi a mezzanotte, da qualche parte per  una strada nel bel mezzo del nulla. Lavori in un bar di notte, il giorno  cerchi di vendere protesi. Vuole un piede? Una mano? Sono molto resi stenti, non serve toglierli quando fate il bagno. Abbiamo ovviamente  anche molti colori. Signori e Signori con la nuova mano verde sarete l’a nima di qualunque festa! Tuo figlio si ubriaca con una banda di scapestrati  e ruba dai negozi. Vende erba tra i vicoli infetti e una volta si è preso una  sbronza e ha rotto la testa ad un ragazzino. Tua moglie ti detesta e consi dera colpa tua tutto ciò che non va bene, ma non te lo direbbe per nulla al  mondo. Ha un lavoro pagato meglio del tuo e sospetti che se la faccia col  capo. Inizi a divenire cosciente della tua propria immaterialità. Sebbene  esteriormente la tua vita sembri ordinaria, tu di fatto non esisti. Così che  un giorno scompari. 
L’uomo che non esiste prende la sua giacca di pelle marrone ed esce  fuori di casa. Non prende né le chiavi, né il telefono. Lascia in cambio un  biglietto dicendo che non tornerà più, così che essi non lo diano per di sperso e gli mandino la polizia dietro. 
Per la prima volta dopo molto tempo, inizia a sentirsi reale. Non è  nessuno. Non è nessuno ma potrebbe essere assolutamente chiunque.  Non è legato assolutamente a niente. Può andare ovunque. Nella sua  mente, ancora persiste l’immagine di quel corridoio. Forse gli è sempre di spiaciuto di non aver premuto il grilletto. Forse sarebbe stata la stessa cosa.  Esistono molte situazioni senza uscita, ed esistono anche uomini che le  chiamano “destino”. Così come se qualcuno ti avesse marchiato e indiffe rentemente da come ti comporti, insiste nel farti soffrire. Al contrario,  puoi sempre voltarti e dartela a gambe. Forse quel giorno sarebbe servito  solo bere il tuo caffè e tenerti lontano da quel palazzo. 

Niente


Le porte si chiudono una dietro l’altra. Non è rimasto niente. È tanto buio  che non puoi vederti la faccia. Il fiume scorre ininterrotto verso altri luoghi  più eterni. Si spengono i colori e si fa notte nella città di Niente. Niente è  una piccola città in una zona montana, qui gli uomini vivono un giorno  per l’altro, le loro memorie sono come una nebbia densa e lenta. Sono pic coli di statura e non molto loquaci. Si vestono con abiti identici, così da  rendere impossibile capire quali siano gli uomini e quali le donne. Tutti  hanno i capelli corti e neri, e i loro vestiti sono di colore giallo. Assicurano  la loro sopravvivenza grazie alla coltivazione delle rape. Loro coltivano,  loro mangiano. Sembra che se la cavino piuttosto bene, così da non avere  nessun legame con il mondo esterno. I vestiti e gli altri oggetti necessari  vengono confezionati dall’estratto di rapa. Possono fare assolutamente  tutto dalle rape, anche il filo interdentale. Ci sono dentisti molto bravi  nella città Niente.  
Lei è arrivata lì in un mattino d’autunno sul tardi, perdendosi per  quei terreni a causa del fatto di aver sbagliato il momento in cui saltare col  paracadute. Ѐ saltata un secondo prima, per questo, il luogo dell’atterrag gio è stato sufficientemente deviato, anche perché batteva vento.  
All’inizio, l’esistenza di questo tipo di città le è sembrata impossibile,  ma vivendoci per un po’ di tempo, ha trovato che era molto più plausibile  della sua esistenza precedente dentro una grande metropoli. Quei piccoli  uomini parlavano una lingua semplice, che in confronto faceva sembrare  ogni altra lingua complicata. Avevi bisogno al massimo di un giorno per  imparare quella lingua. Gli abitanti della città Niente non conoscevano  altre lingue. 
Şami si intendeva bene con quegli uomini, perché erano molto di versi rispetto agli uomini abituali. Non parlavano molto, non manifesta vano interessi, non avevano aspirazioni. Conducevano semplicemente la  loro vita in un modo banale, pensando più che altro a un “domani” possi 
bile. Non ridevano e non piangevano, Şami credeva che fosse possibile  perché erano felici al 100%. O no. Si svegliava al mattino, si lavava, man giava, poi andava ad aiutare i padroni al campo di rape. Viveva presso una  famiglia formata da un uomo e una donna approssimativamente di  trent’anni, non avevano bambini. Tuttavia, pensandoci meglio, nessuna fa miglia della città aveva bambini. Perché? Quindi come si moltiplicavano?  Şami presupponeva l’impossibile: forse erano immortali! Probabilmente  per questa ragione avevano queste vite così semplici e noiose. Volti piatti e  inespressivi.  
Dopo aver aiutato la famiglia al campo di rape, Şami pranzava sola  sotto un gazebo in giardino. Nonostante fossero sempre rape, sembrava  avessero un gusto ogni volta diverso. Il pranzo era preparato dalla gover nante di casa. Dopo pranzo, Şami era solita disegnare qualcosa, oppure semplicemente respirava l’aria fresca del monte durante lo spettacolare tra monto. Si coricava molto presto, prima di coricarsi però si rilassava un po’,  lasciando soltanto che quella strana luce le entrasse nella pelle. Era la luce  di una lampada speciale fatta di rape. La luce era uguale ma le ombre ave vano una sfumatura strana. Comunque, per Şami, la luce di una lampada era così speciale che osservava persino la sua ombra. Chiudeva gli occhi  sotto le lenzuola morbide e dormiva spesso senza sognare. Al mattino si  alzava e ricominciava da capo. 
Così son passati molti giorni. Il tempo perdeva valore con facilità, e  l’abitudine si era installata sul suo volto con brutalità. La sua espressione  diventava neutra. Era così sola che neanche sapeva come riconoscere la soli tudine. Un giorno, ha iniziato anche lei a portare vestiti gialli. Ha tagliato i  capelli corti. Era più comodo così. Si è specializzata nella raffinazione del  vino di rapa. Il suo respiro aveva l’odore di una candela spenta da molto.  
Il paracadute con il quale era atterrata l’aveva bruciato tempo addie tro. I suoi vecchi vestiti erano ancora dentro un baule. I suoi orecchini ad dobbavano il candeliere da ormai qualche anno. Su di essi era colata la cera  ed erano come sigillati dentro. La loro luminosità era persa.  
Era inverno quando aggiunse il cane a Niente. Era molto affaticato  dal viaggio. Voleva riposarsi da qualche parte, quanto prima possibile. Şac  non era un cane abituale – egli possedeva il linguaggio e l’intelligenza  dell’essere umano. Viaggiò per tutto il mondo e vide moltissime cose mira colose e spaventose allo stesso tempo. Ma niente avrebbe potuto prepararlo  a Niente. Ovunque guardasse, vedeva rassegnazione e stupidità. Ribrezzo.  Letargia. Şac si sentiva strano, come se lo stomaco gli si fosse ristretto  dentro una pelliccia di gatto. Una spiacevole sensazione! Passeggiava  dentro un mondo arido. Poi ha trovato Şami. Gli è subito sembrato che  non fosse una locale e le ha chiesto:  
– Che ci fai qui? 
Lei lo ha guardato storto. 
– Ci sto. Vivo qui. 
– Ah, – sembrava capire. – E ti piace qui? – ha chiesto lui. – Sì, – ha risposto lei, secca. 
Şac non sapeva più che dire, quindi ha taciuto. Şami si è voltata in dietro ed è entrata in casa. Nemmeno un cane parlante la impressionava  più ormai.  
Şac chiuse gli occhi e si addormentò sul tappeto di rape di fronte alla  casa di lei. Sospirando, è diventato un tutt’uno col tappeto ed è sparito  completamente. Nessuno si ricorda di averlo più incontrato. Nella città  Niente ci sono delle brave persone. Sono scomparse anche loro.

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