Verso l’alba, sognò un crimine commesso ai piedi di un mandorlo e quattro biglietti della lotteria, tutti perdenti. Era domenica.
Il giovane medico pianse nel sonno e si svegliò con le guance avvolte da una tristezza purpurea. Mangiò senza appetito, si vestì a lutto e attese la telefonata che avrebbe dovuto confermare chi dei suoi cari fosse morto nella notte.
Suo nonno era nato intorno all’inizio del XX secolo, in un mondo troppo lontano che la gente potesse conservare molte fotografie.
Il padre di suo nonno era morto trent’anni prima che il giovane medico nascesse. Egli veniva da un tempo ancora più remoto, in cui la gente passeggiava per strada e si spostava trasportata da cavalli e finiva la propria vita in agguati agli incroci, con un coltello conficcato direttamente nel cuore, oppure, al contrario, con un coltello infilato alla maniera dei banditi tra le scapole. Ma lui non era finito così: era morto di cancro, come uno qualunque. Non ne avevano alcun ricordo comune. Non erano che le otto del mattino quando la mamma del giovane medico telefonò:
È morto il nonno, gli disse.
Lo so, le rispose.
Come lo sai?
Mi è apparso in sogno.
Il terzo giorno, il giovane medico accompagnò suo nonno alla tomba e chiunque guardasse nei suoi occhi poteva scorgervi la morte di tutti gli uomini.
Il giovane medico si trascinava dietro la bara, col cuore gelato sotto il sole che accendeva tutto il cielo – e il cielo adesso era viola.
Il giovane medico si trascinava dietro la bara e pensava a tutti i defunti della sua famiglia, che erano stati inghiottiti dalla terra di questo Paese che odiava. Pensava al fratello di sua madre. Suo zio, che era stato un uomo indicibilmente bello, era impazzito e l’avevano portato al manicomio e lì, in una di quelle notti, egli rubò una tanica di benzina dall’ufficio del vice direttore dello stesso manicomio, gettò via tutti i suoi vestiti, si cosparse di benzina in testa e si diede fuoco, correndo come una torcia nel cortile di quel posto. I matti lo guardarono da dietro le finestre con le inferriate, ma tutto ciò che poterono fare fu urlare. Nessuno diede loro retta – chi ascolta i matti?
E il suo corpo sublime bruciò finché non rimase nulla di quello zio se non un inutile mucchietto di cenere.
Il giovane medico pensava che il tempo è solo un cerchio e che un giorno un altro della sua stirpe si sarebbe cosparso di benzina in testa e si sarebbe dato fuoco nel cortile interno di un manicomio.
Quando aveva diciassette anni, suo nonno era entrato nel Partito Comunista. Il giovane medico non trovava un’altra scusa per averlo fatto, se non quella che fosse ebreo (sebbene avesse acquisito alla nascita un nome turco).
Un fanciullo ebreo e sognatore, col naso aquilino e gli occhi grandi che vedevano tutto e non dimenticavano nulla. Gli era stato promesso un futuro d’oro ed egli era stato tanto naif/candido/innocente da crederci e si era lasciato fanatizzare da Marx.
Quando aveva vent’anni ed era uno studente brillante di matematica, suo nonno si era ubriacato come un maiale ad una festa dei giovani e così si era rovinato la vita. Ubriaco, ha cavalcato la statua di Lenin.
Non ha preso a schiaffi il profeta dell’Est, lo ha baciato su entrambe le guance, come se fosse un camerata, un fratello, un Dio più piccolo, che poteva essere tuttavia baciato sulle guance.
Proprio i suoi compagni di facoltà e di bevute erano stati coloro che l’avevano tradito. Venne sbattuto fuori dal Partito e dall’Università e fu condannato per questa scandalosa intimità. Come osi baciare le guance di Lenin tornite in pietra?
Lo liberarono dopo otto mesi e gli consentirono di seguire soltanto la scuola dei mestieri. È così che suo nonno diventò idraulico.
Con un dossier come il suo, non aveva più speranze, ma il Paese volle allontanarsi dall’Unione Sovietica e quindi anche lui fu rivalutato fino a diventare idraulico in un’unità militare.
Ed è in tale unità militare che trovò la morte il Dittatore. Il giovane medico era cresciuto al tempo del Dittatore, aveva recitato poesie per il Dittatore, aveva studiato sui manuali scolastici che iniziavano tutti con il ritratto del Dittatore (nei quali – come per Van Gogh – non si vedeva che un solo orecchio, quello stilizzato, essendo che il Dittatore aveva le orecchie a sventola).
Suo nonno, l’idraulico, vide sia il Dittatore che Sua Moglie, la Dittatrice, morenti lungo il muro dell’unità militare, coi corpi pieni di proiettili. Aveva assistito all’esecuzione come un qualsiasi spagnolo al tempo dell’Inquisizione, come un mercante francese al tempo delle teorie giacobite.
Prima di essere fucilato, il Dittatore aveva canticchiato l’Internazionale e questa, ovvero la storia di suo nonno, l’idraulico, lo aveva emozionato e gli aveva messo un peso sul cuore, anche se suo nonno non aveva alcun motivo per rincrescersi della morte del Dittatore e del Regime Comunista.
O forse lui, con la sua testa da matematico condannato al carcere e poi ad un banale lavoro fisico, per aver baciato la statua di Lenin, tuttavia, non aveva mai potuto odiare i comunisti.
Subito dopo che dal Dittatore iniziò a sgorgare il sangue, cominciò a nevicare. E suo nonno vide come cade dal cielo la neve e come si fa rossa a causa del sangue del Dittatore, poi sulla sua vista calò una nebbia fitta e non vide più nulla.
Al tempo, il giovane medico era uno studente di scuola elementare. In quella notte, per la prima volta arrivò – persino nel loro palazzo di proletari – Babbo Natale. Gli portò un aereo di latta che, nonostante avesse le ali, non poteva innalzarsi in volo. L’aveva trovato sotto un abete artificiale dal quale pendevano strisce carte colorate che imitavano gli involucri delle caramelle. Carte colorate che drappeggiavano il vuoto. Egli non aveva visto Babbo Natale, ma gli altri bambini avevano testimoniato che il Babbo fosse nano.
Molto più tardi tutti capirono che quello che i proletari avevano travestito di fretta, nascondendolo sotto una barba di ovatta (ovatta che si utilizzava nelle faccende intime delle compagne di lavoro e di vita dei proletari), altro non era che il loro vicino nano del pianoterra.
Ancora adesso il nano del pianoterra e gli involucri di quelle caramelle inesistenti scorrono nella mente del giovane medico e si amalgamano lì con il sangue del Dittatore.
Il Dittatore era figlio di contadini, crebbe semianalfabeta, divenne poi apprendista calzolaio nella Grande Città, i comunisti avevano visto in lui la testardaggine e lo avevano mandato a distribuire i manifesti e a fare piccole commissioni, poi a quindici anni era entrato in carcere, dove aveva fatto ancora l’apprendista a fianco ai comunisti più noti. Lì imparò come giocare a scacchi, a sacrificare i pedoni e ad attendere l’errore dell’avversario. Lì apprese l’astuzia.
Il Dittatore aveva scalato la cresta del Potere e non se ne era più andato se non cadendo lungo il muro dell’unità militare sotto lo sguardo del nonno del giovane medico, che allora non era altro che un allievo di scuola elementare che non aveva mai visto Babbo Natale.
Il Dittatore era stato accompagnato per una passeggiata in carrozza dalla Regina d’Inghilterra e da tale passeggiata era nata la leggenda che il Dittatore, sfidando ogni protocollo, avrebbe scoreggiato nella carrozza, dando poi la colpa al cavallo della Regina. La leggenda circolò per un decennio intero, essendo raccontata a voce bassa, con le dovute precauzioni, rispetto al ricettore dell’informazione, che sarebbe potuto essere un agente della Polizia Segreta, e molte volte lo era.
Ma alla gente piaceva così tanto questa storia, che non era necessario che fosse vera per poter essere creduta, a tal punto che rischiava il lavoro e la libertà e addirittura la vita solo per non lasciare che si perdesse.
Il Dittatore era sopravvissuto ad un incidente aereo a Mosca e ad un numero indefinito di attentati alla sua vita. Anche lui era stato giovane, ed essendo giovane, aveva sparato con la sua mano ai contadini che non volevano perdere la propria terra a favore del Partito. Sapeva come essere cruento.
Benché balbuziente, aveva tenuto discorsi astuti con i quali aveva imbevuto di illusioni la gente, e la gente lo aveva acclamato e anche amato, ma il potere alle fine gli aveva portato via completamente il senno, così come succedeva a tutti coloro che non avevano le spalle sufficientemente forti per tale fardello.
Il Dittatore aveva utilizzato senza pietà il suo potere, aveva gremito gli stadi con i corpi dei giovani del suo Paese, e i giovani avevano scritto il suo nome con i loro corpi. E la paura, il freddo e la carestia imperarono nel regno del vecchio apprendista calzolaio.
La gente cercava di evadere e attraversava il Grande Fiume, sotto una pioggia di proiettili che non cessava neppure di notte. Il giovane medico aveva sentito anche la leggenda di un allievo della scuola di aviazione che era fuggito proprio con l’aereo durante un esame e non si era mai fermato fino ad un’autostrada in un impero asiatico.
Il Dittatore aveva perseguitato i bambini non ancora nati, aveva abbattuto chiese e mutilato la Grande Città, pianificandola secondo la sua visione – la Grande Città era pertanto diventata la somma delle fantasie di un faraone demente.
Nel palmo del giovane medico lampeggiava l’enorme corpo di lucciole di un telefono di ultima generazione. Non era opportuno rispondere alla telefonata proprio in quel momento, ma a dire il vero aveva voglia di rispondere ad un altro appello – l’appello dei quotidiani del mondo intero gestiti tutti dalla Rete Unica. Aveva questo impulso proprio perché sapeva bene cosa avrebbe trovato nelle loro pagine: bilanci delle guerre in corso, villaggi bruciati, balli e saltimbanchi, altri dittatori con i loro muri, la stessa commedia sulla quale si sovrapponeva la stessa tragedia, da sempre, la stessa tragicommedia, che non perdona nessuno, mai e poi mai.
Alla gente non piacciono le grandi sorprese. Il tempo è un cerchio, altrimenti nulla potrebbe essere sopportato, pensò il giovane medico.
Dalla bara, sembrava che suo nonno gli lanciasse un sorriso intimorito, e ciò avrebbe potuto significare che la sua anima era salita già in cielo e aveva constato l’inesistenza di Dio o avrebbe potuto anche non significare nulla.
Suo nonno era nato ebreo, aveva avuto un nome turco, in gioventù si era proclamato comunista ateo, ma verso la fine della sua vita aveva iniziato a temere il Dio del Nuovo Testamento e si era convertito, non per ragioni formali, al cristianesimo. Era forse ingiusto che fosse andata così, ma il Dio del Nuovo Testamento sapeva essere ingiusto, così il nonno del giovane medico era morto senza confessione e senza sacramenti.
Aveva avuto un infarto miocardico nel sonno, gli avevano trovato la faccia dominata da un ghigno che, per ragioni estetiche, si erano sforzati di correggere, però senza grande successo. No, suo nonno non gli stava sorridendo. E solo ad un poeta che avesse perso la lucidità sarebbe potuto saltare in mente che i suoi occhi chiusi fossero un invito a danzare.
Il giovane medico non era un poeta che aveva perso la lucidità. Egli ripose il telefono nella tasca dei pantaloni e continuò a procedere fissandosi la punta delle scarpe nere.
La tristezza che sembrava circondare tutti non era reale. Per strada, incontrarono un circo che si spostava da un villaggio all'altro e non pochi sorrisero guardandolo e ripensarono alle proprie infanzie, prive dell’esistenza della morte.
Ma se proprio volete sapere, la gente veramente vecchia, com'era il nonno del giovane medico, non la rimpiange nessuno. Sono troppo vecchi per essere d'aiuto ai vivi, ormai hanno solo da lasciare delle eredità - il loro mondo non è qui, quasi tutti sono putrefatti e aspettano solo che abbiamo la pietà di seppellirli.
Il giovane medico sapeva di partecipare, meccanicamente, ad un rituale al quanto ridicolo, però si sforzava di fingersi profondamente afflitto. Non lo era.
Pensava a coloro che erano morti prima, ma lo faceva solo perché sapeva perfettamente che l'uomo (qualsiasi uomo) è la somma di cartilagine, di sangue e ossa e che un giorno il figlio del suo figlio non ancora nato camminerà dietro la sua bara, portando avanti tutta questa sciarada, nei secoli dei secoli.
Un pope obeso iniziò a cantare al defunto l’eterno riposo, un gruppo di vecchiette iniziò a piangere, compiangendo in realtà la propria morte. Un gatto senza un occhio e con l'altro occhio giallo saltò tra due croci del cimitero e il giovane medico pensò di nuovo che tutto ciò fosse già accaduto prima e che sarebbe accaduto di nuovo, ancora e ancora e ancora e ancora e ancora.
E mentre Dio batterà le palpebre una sola volta, il figlio del suo figlio non ancora nato sacrificherà per il giovane medico un vitello dal futuro e negozierà, per i funerali, con un gruppo folcloristico di musicisti dal futuro e i musicisti suoneranno da lontano quella musica e la Terra accoglierà anche lui e la tomba si richiuderà con la promessa di non dimenticarlo mai, ma era ovvio che una cosa del genere non sarebbe mai successa, e il giovane medico sarebbe stato pure lui dimenticato, come vengono dimenticati tutti gli uomini, tranne i santi, i grandi criminali, i re e le loro amanti.
Il giovane medico si allontanò di qualche passo dalla terra che ingoiava il nonno poi si allontanò ancora di più, senza voltarsi indietro, poi uscì, inosservato, dalla porta del cimitero e incontrò una zingara, e la zingara gli chiese una moneta in beneficienza, e lui tirò fuori dallo zaino un pugno di monete e le versò nel palmo della zingara, allora iniziò a piovere ed entrambi alzarono lo sguardo per vedere la fonte della pioggia.
Dopo pochi istanti, o forse furono delle eternità, il giovane medico si allontanò sempre di più, non si voltò più indietro, così che non ebbe come vedere che il gatto senza un occhio e con l’altro giallo gli stava sempre dietro, come un'ombra.