View Colofon
- "Diário" translated to PT by Barbara Jursic,
- "Dnevnik" translated to SR by Jelena Dedeić,
- "Dziennik" translated to PL by Joanna Borowy,
- "Dagboek" translated to NL by Staša Pavlović,
- "Deník" translated to CZ by Kateřina Honsová,
- "Medsočje" translated to ES by Xavier Farré,
- "Jurnal" translated to RO by Paula Braga Šimenc,
MariaGaia Belli
Diario
21 agosto
Mi chiamo Erik Tlomm e questo è il mio diario. Scrivo su prescrizione dello psichiatra, a quanto pare allo scopo di una più pronta guarigione. Ma a chi dovrei scrivere nello specifico? A lui? A Lina, mia moglie? Non vorrà mica mostrarle quello che scrivo? «Scriva a sé stesso» è stata la risposta dello psichiatra a queste mie perplessità. Ho quindi comprato un quadernetto in pelle e ora mi ritrovo qui, a questa scrivania, a scrivere un diario a me stesso, anche se non riesco a liberarmi della strana sensazione di non stare scrivendo solo per me, ma pure per qualcun’altro – ma chi?
22 agosto
Una contestualizzazione circa la mia prima annotazione su questo diario (a chi? a me stesso? a lui? a te?): ho avuto un esaurimento nervoso dalle conseguenze talmente gravi che persino l’alcol, il mio fido amico a doppio taglio e compagno di innumerevoli notti e serate, non è riuscito a mitigare.
Su iniziativa di mia moglie (e contro la mia volontà) sono approdato da uno psichiatra che in un primo momento, non confidando affatto nella propria disciplina, mi ha prescritto dei medicinali il cui nome non sono neanche in grado di ripetere senza avere le confezioni in mano (so solo questo: terminano tutti con suffissi chimici, alcuni piuttosto comici tipo -zapin, -zain, -zac, -zepam, -zolan, e come radice hanno morfemi bizzarri e prosaici). La sola idea di assumere medicinali mi turbava a tal punto che ho preferito rivelare alcuni dettagli della mia vita privata al medico impiccione, guadagnandomi così la sua benevolenza – senza però raccontargli troppo di me.
Il caro vecchio dottore, nella sua immensa erudizione, non ci ha messo molto a constatare che in realtà non ho nulla di particolarmente grave, e mi ha quindi prescritto una semplice vacanza – «si allontani dalla città, via dalle persone, il più possibile nella natura» – e io, quasi per caso, mi sono ritrovato a chiedermi: c’è forse destinazione migliore della valle d’Isonzo e di una cittadina sul fiume con a stento qualche migliaio di abitanti?
Lo psichiatra ha approvato e ancor prima riuscissi a uscire dallo studio, mi ha stretto la mano e mi ha consegnato il biglietto da visita di un suo collega, il direttore di una clinica psichiatrica nei pressi della cittadina dove ho deciso di andare per questa mia vacanza minore.
Quanto alla domanda, non sono del tutto convinto sia quella giusta – la risposta, però, era letteralmente a portata di mano: la ridente Medisonzo.
23 agosto
L’esaurimento nervoso l’ho avuto sul posto di lavoro, ma non a causa sua. Giammai. Non devo neanche pensarla una cosa del genere – figuriamoci se scriverla o dirla ad alta voce!
Un tempo si diceva: “Il lavoro nobilita l’uomo”, “Chi non lavora, non mangia”, “Il lavoro rende liberi”, questi e altri slogan sciorinava e propagandava la nostra cara vecchia casta di partito; all’epoca però nessuno andava in giro scalzo. Così come all’epoca nessuno prendeva sul serio il presunto pugno di ferro del Partito con gli stivali di cuoio, esattamente al contrario di oggi che diamo anche troppo credito al cosiddetto libero Mercato. Solo adesso che da socialisti ci siam fatti capitalisti e procediamo lungo la stessa vecchia strada imbrattata di fango calzando i nostri bei calzini nuovi di cotone, solo adesso mi pare che prendiamo sul serio tutti quei vecchi slogan sul lavoro. Ma in realtà ora è molto peggio, perché almeno all’epoca potevi incolpare il regime di tutto, mentre oggi l’unico responsabile del proprio insuccesso è il singolo individuo, sei tu medesimo. E questo l’ho sperimentato in prima persona con il mio esaurimento nervoso.
Sarà anche vero che il lavoro mi dà da mangiare, quanto al rendermi libero... non mi sembra la cosa si stia anche solo profilando all’orizzonte, neanche un po’ – nonostante profusi sforzi e vessazioni di corpo e mente fino agli estremi limiti dell’umano. Sì, lo ammetto: a differenza della maggior parte dei casi in cui la gente viene ridotta allo stremo o si esaurisce esclusivamente a causa degli avidi desideri padronali di incrementare gli utili, io in questa situazione mi ci sono andato a ficcare da solo. Estremamente nobilitante, nevvero? Esigo una medaglia al merito causa servigi straordinari sul mercato del lavoro, che me la dia una di quelle associazioni ottimiste che tentano di normalizzare la paranormalità contemporanea proprio distribuendo onorificenze dagli appellativi più adorabili (tipo castoro diligente, ape operosa, celere gazzella, industre formica – come se stessimo leggendo delle favole in versi su zelanti e laboriosi animaletti lavoratori!).
Mi guadagno da vivere a Nova Gorica lavorando come giornalista freelance per il quotidiano Primoske novice, ma proprio come sono nato altrove, e per la precisione a Šempeter pri Gorici, San Pietro di Gorizia, così di mestiere, o meglio di vocazione, faccio, o meglio mi ritengo – scrittore. L’esaurimento mi è venuto proprio mentre stavo scrivendo il mio primo romanzo, in un periodo in cui avevo accumulato parecchi arretrati anche con il lavoro al giornale.
Di giorno andavo in giro, intervistavo gente, trascrivevo registrazioni audio, scrivevo articoli su questo e quell’altro, la sera e la notte, invece, armato di robuste quantità di caffè, sigarette e cenere, mi dedicavo alla scrittura.
Per qualche mese sono riuscito a reggere questo ritmo, ma poi l’inesorabile falce dell’esagerazione si è abbattuta su di me. Il romanzo proprio non riuscivo a finirlo – macché finirlo, neanche a cominciarlo come si deve – così mi sono portato dietro questo mio manoscritto incompiuto. Ora lui attende me, paziente – e io attendo lui.
[…]
D a n t e , D. , D e t e c t i v e
7 ottobre (mezzogiorno)
Oggi, di buon mattino, la sorte ha bussato alla mia porta: ma è entrata senza l’impeto o il fragore e clamore che ci si aspetta quando la si nomina, né il suo ingresso è stato accompagnato dallo spiffero che dimora, fedele e tenace, nella mia abitazione medisontina. No, è entrata con tatto e discrezione, come si confà alla sua indole.
I lunghi capelli rosso scuro, quasi corvino, le ricadevano ordinati su un lato, l’impermeabile color crema sfumava delicatamente nel candore color neve della camicetta, mentre i pantaloni attillati e in pelle nera che indossava, sfociavano in stivali dalla tinta altrettanto scura. Si è presentata e mi ha mostrato il tesserino dell’Ufficio Nazionale di Investigazione, su cui c’era la fototessera, un cognome insolito, la sola iniziale del nome e la qualifica, senza altri particolari ulteriori: Dante, D., Detective.
«Dante? Che cognome insolito. A quanto ne so è così che si chiama anche il noto poeta fiorentino Alighieri – siete forse imparentati per vie inverse di nome e cognome?» provai a fare una battuta, ma visto che non ribatteva, continuai come nulla fosse: «D. è l’iniziale del suo nome: Dana? Dijana? Danae?»
«Dó. Se vuole mi può chiamare Dó.»
«Dó? Come la nota sul pianoforte?»
«Sì, diciamo. Come la nota.»
«Dó, piacere – io invece sono É.»
Al mio invito ad accomodarsi, D. ha varcato la soglia, rifiutando però il bicchierino di grappa fatta in casa offertole da me: «Non bevo» ‒ «In servizio?» ‒ «No, in generale». Ho acceso una sigaretta e ne ho offerta una anche a lei ‒ «Non fumo» ‒ «In generale?» ‒ «Esatto» ‒ «Caffè?» ‒ «Tè» ‒ «Non ne ho» ‒ «Grazie lo stesso». Credo proprio ci intenderemo alla perfezione.
«Lei accende la stufa in autunno?» ha sbottato all’improvviso come un fulmine a ciel sereno ‒ «L’ho accesa ieri per la prima volta per scacciare via l’umidità di tutta la pioggia torrenziale caduta nei giorni scorsi» le ho risposto, calmo, sedendomi sulla sedia che, nel frattempo, avevo allontanato dalla scrivania accostata alla finestra per spostarla verso di lei, e poterla così accompagnare con lo sguardo mentre si aggirava con passo lento per questa mia isba. Ha ispezionato tutto con la massima attenzione, come se stesse già conducendo un’indagine: la macchina da scrivere, il vecchio giradischi, la libreria, gli oggettini kitch sulle mensole e persino i quadri di idillici paesaggi naturali appesi alle pareti. Infine ha preso posto sul divano di fronte al tavolino basso cosparso di robaccia varia, sigarette, giornali, chiavi e altri oggetti a caso, e mi ha detto: «Senta. Mi hanno mandata qui dall’Istituto Nazionale di Investigazione per indagare sull’omicidio di Magdalena Možina. Il caso è – come potrei dire – insolito. In tutti i casi che esulano le competenze, ma soprattutto il raggio d’indagine e ricerca della polizia criminale, mandano noi. Se si tratta di questioni ancora più complicate, mandano me».
Fino a questo punto del suo discorso, che sembrava la descrizione della sua mansione lavorativa come risulta dal sito dell’Istituto, era rimasta comodamente appoggiata allo schienale del divano a mani incrociate, con sguardo severo e voce determinata. Poi si è piegata in avanti con confidenza, si è posata i gomiti sulle ginocchia, ha rilassato lo sguardo e ha parlato con una voce molto meno tesa: «Nei casi in cui il reato avviene in seno a piccole comunità, cerco – e lo faccio, mi preme sottolinearlo, scavalcando le procedure standard – cerco di procurarmi un informatore locale. Gli autoctoni di solito non si fidano delle autorità provenienti da fuori. Persino la polizia locale, no. A maggior ragione in questo caso, dove il colpevole è un membro della comunità. Tutti vogliono risolvere tutto da soli, senza aiuti esterni, come sono d’altronde abituati. Questione di orgoglio patriottico locale.»
Si è fermata un attimo per riprendere fiato, ma prima ancora io riuscissi a riflettere su quanto aveva appena detto, ha continuato: «Insomma, in questi casi ho bisogno di qualcuno da dentro: un locale, un autoctono, un membro del clan del luogo. E stavolta, invece, trovo persino di meglio: lei. Non è di qui, però vive abbastanza a lungo in questo posto da conoscerne le genti, e, cosa ancora più importante per le indagini, usanze e costumi. Vede, Erik Tlomm, io so tutto di lei, ma nulla di Medisonzo». A questo punto però sono riuscito a interromperla: «Aspetti un attimo. Cosa sa di me? Ma soprattutto, come fa a sapere che l’assassino è uno del luogo?».
Un vago sorrisetto le ha increspato le labbra, quasi impercettibile, ma nonostante l’indecifrabile mimica facciale, dal suo volto trapelava comunque un autentico piacere nello spiegare: «Elementare: l’unica via di accesso a Medisonzo è lo svincolo della statale isontina principale cui si riallaccia dopo il ponte, a seguito di un lungo tornante. Lo svincolo il giorno dell’omicidio era chiuso da entrambi i lati: un lato era bloccato da un allagamento, l’altro dal tronco di un albero caduto. La tempesta ha isolato Medisonzo dal resto del mondo fino alla mattina del ritrovamento del cadavere della vittima. Le dichiarazioni dei testimoni sono state verificate, stessa cosa per i filmati della pompa di benzina: nel giorno dell’omicidio non è transitata nessuna nuova automobile né nessun volto nuovo. È dunque legittimo concludere che il luogo del delitto, che ancora dobbiamo trovare, si trovi nelle immediate vicinanze della piazza. Non è assolutamente verosimile che l’assassino abbia rischiato un percorso più lungo con un peso così scomodo quale è un cadavere. La ricostruzione del delitto, quindi, per il momento può dirsi la seguente: l’assassino uccide Magdalena Možina, poi nel cuore della notte, per motivi che ancora mi sfuggono, si ritrova nella piazza, nota il tiglio colpito dal fulmine e intravede nell’albero una bella occasione».
Una bella occasione? Per cosa di preciso? L’ho fissata in silenzio e nel frattempo ho cominciato a rigirarmi l’anello nunziale al dito, come sono solito fare quando rimugino su una faccenda seria. Aveva dedotto tutto questo prima ancora di fare un sopralluogo sulla scena del crimine? Incredibile! Appena mi sono ripreso, ho esclamato: «E se nel frattempo il colpevole se ne fosse già andato?». Ancora una volta mi fu servita una risposta sorprendentemente convincente: «Possiamo solo sperare sia così stupido. Qui tutti conoscono tutti. Se improvvisamente qualcuno sparisse nel nulla, il colpevole si tradirebbe da solo. Ma il nostro uomo non è così stupido. Questo almeno è a dir poco evidente».
Se ti metti a ragionare sul fatto seguendo la logica, come aveva appena fatto D., sembra tutto chiaro e lampante. Se invece vieni sopraffatto da un misto di rabbia e paura, come me, allora no, per niente, non puoi ragionare sul serio su un bel nulla. Ragionare significa innanzitutto e soprattutto mettere da parte tutti i sentimenti; ma questo io, almeno per ora, proprio non riesco a farlo: perché non si tratta semplicemente di una “vittima di omicidio” o di un “cadavere”, per usare le parole fredde e distaccate con cui si era appena espressa la mia interlocutrice. La vittima non è chiunque, non è un qualche povero anonimo sfortunato, no, il morto ammazzato è la mia Magda!
«Ho bisogno del suo aiuto per comprendere il quadro più ampio» ha ripreso la parola, interrompendo il silenzio che aveva riempito la stanza nel frattempo, ma stavolta con un tono un po’ meno studiatamente calmo e pacato. «Signor Tlomm, mi aiuterà ad acciuffare il colpevole?». Ho annuito (e come potevo fare altrimenti?): «Certo, Dante, le farò da Virgilio in questi cieli di Medisonzo tramutatisi in Inferi».
Si è alzata dal divano in tutta la sua eleganza e io sarei voluto sprofondare dalla vergogna perché nell’alzarsi si era dovuta scostare della sporcizia dai pantaloni (lo ammetto, lo ammetto: da quando i primi giorni ho fatto una pulizia generale della casa, da allora non ho avuto né la forza né la volontà di sfiorare né scopa né spazzole). D. si è accorta del mio imbarazzo, ma ha reagito da vera signora cui dettagli del genere non sfuggono, ma non li ritiene meritevoli di commento (solo le persone spicciole adorano aggrapparsi a questo tipo di dettagli e fanno di ogni mosca un elefante con cui aspirano a fare piazza pulita di cose ben più grandi di loro).
Prima di congedarci abbiamo concordato che ci saremmo scambiati le informazioni in maniera puntuale: io l’avrei aiutata nella sua indagine, lei mi avrebbe dato una mano con gli articoli per il giornale. Affinché l’indagine possa proseguire indisturbata, ho dovuto non solo acconsentire che non mi avrebbe riferito tutto, ma le ho anche dovuto promettere che non avrei pubblicato nulla previa la sua diretta approvazione; e ha anche aggiunto che forse, qualora la disinformazione potesse essere di aiuto nel catturare il colpevole, di tanto in tanto avrei pure dovuto scrivere qualcosa di non corrispondente al vero (spero non si arrivi a qualcosa del genere, perché se così fosse, sarei costretto a contravvenire al codice etico dei giornalisti, cui mi attengo nonostante tutto quello che si sente dire oggi sulle manipolazioni dei mass media).
Poco prima di andarsene, già sulla porta, mi ha chiesto di sfuggita come vanno le cose tra me e mia moglie, se stiamo meglio di prima e così via, fino all’indiscreta domanda sul colore dei capelli di Lina. «Neri. Ma che c’entra questo con tutto il resto e come fa a sapere che stiamo attraversando un periodo difficile?» – «Elementare: lei si è trasferito qui a Medisonzo da poco, ma non vi siete separati e lei ce la sta mettendo tutta per rimediare. Porta ancora l’anello nuziale che gira e rigira inquieto senza sosta, il che tradisce la sua preoccupazione o, quantomeno, il suo pensare a sua moglie».
«E i capelli?» le ho chiesto colmo di stupore.
«Il colore? Ah, niente, pura curiosità.»
Si è congedata e mi ha lasciato in balia dei miei pensieri, ora focalizzati sugli ormai già tre esseri femminili più importanti della mia vita: mia moglie Lina, la morta assassinata Magdalena e ora anche la detective D. Dante.