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Original text "Het portret" written in NL by Hannah Roels,
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Maria Gaia Belli

Published in edition #2 2019-2023

Il ritratto

Translated from NL to IT by Francesco Panzeri
Written in NL by Hannah Roels

La casa aveva una facciata imponente e una porta in rovere, senza alcuna targhetta. David ci mise un po’ a scendere, e nel frattempo mi guardai attorno. La strada era bianca e tranquilla, ben diversa del quartiere affacciato sul canale dove abitavamo Sam e io. Ero in bilico tra sogno e risentimento, come spesso mi accade con le cose che non mi posso permettere.

David aprì la porta e mi sorrise. Aveva la camicia sbottonata. Lo seguii sulle scale ed entrai di nuovo, nel suo profumo di noci e trementina. Lo studio era caotico come la volta prima, ma pareva un poco più sgombro, anche se non capivo se fosse per via della luce del sole o del fatto che stavolta quasi tutti i quadri fossero girati verso il muro. In vista rimaneva soltanto il piccolo paesaggio boschivo, di fianco alle bottiglie vicine alla finestra.

David attraversò concentrato la stanza, come se io non ci fossi. Girò attorno a una vecchia poltrona e batté la mano sulla seduta. Le molle produssero un rumore sordo. Quindi trascinò un cavalletto fino alla poltrona, avvicinò un tavolino con pennelli e matite e prese posto su uno sgabello alto. Il cavalletto era così sporco di vernice da sembrare ricoperto di guano. David prese qualche puntina da un coperchietto e fissò alcuni fogli sul legno. Mormorò contrariato, si rialzò, girò la poltrona, vi avvicinò uno specchio – e tornò a sedersi. Era come se stesse preparando una scenografia. Si era arrotolato le maniche, e vidi le sue belle braccia e i polsi.

«Hai freddo?»

Avevo ancora la giacca addosso e la borsa in spalla, non avevo proprio fatto caso alla temperatura.

«Ho acceso il riscaldamento al massimo.»

Dopo questa osservazione si mise a trafficare con matite e carboncini. Non era scortese, bensì assente, e io non potevo continuare a temporeggiare; ci si aspettava qualcosa da me.

«Posso chiederti dell’acqua?»

David prese una bottiglia, riempì un bicchiere e tornò a sedersi. Non lo toccai, turbata. Avevo la sensazione di essere abbandonata a me stessa.

«Bene», disse «io sono pronto.»

Mi indicò un paravento in fondo allo studio, dove era appesa una vestaglia. Mi sentivo senza forze. Inspira, espira. Raggiunsi il paravento e mi slacciai le scarpe. Mi sfilai i pantaloni, il maglione e la biancheria, e li ammucchiai uno sopra l’altro. Con indosso la vestaglia che mi stava larghissima mi sedetti sulla poltrona, mentre lui temperava le matite. La scena aveva un che di intimo, ma in maniera pericolosa, e la stoffa della vestaglia iniziò a bagnarsi di sudore sotto alle ascelle.

David indicò la vestaglia.

«Devo alzarmi?» chiesi.

«Sì, forse sì, per iniziare.»

Le mie gambe avevano vita propria. Mi alzai di colpo.

«In piedi va benissimo.»

«David» cominciai.

Sudavo a tal punto da sentire i piedi appiccicarsi al parquet. Lui era seduto due metri più in là, sul suo sgabello, con il cavalletto a dividerci. Per la prima volta rivolgeva tutta la sua attenzione su di me. Quando pronunciai il suo nome, mi lanciò uno sguardo arcigno e capii che eravamo troppo distanti.

Con le dita fredde mi sfilai la vestaglia e la posai con noncuranza sulla poltrona. Un caldo senso di vuoto sulla pelle. Il mio petto si alzava e si abbassava, e per un istante mi sentii priva di peso. Non riuscivo ad accettare questa nudità, potevo soltanto guardarlo negli occhi, che scendevano lungo il mio corpo. Non accadde nulla. Una goccia di sudore mi rotolò tra le natiche. Mi aspettavo che la paura si sarebbe fatta più intensa, ma così non fu – scese all’incirca all’altezza del petto, dove rimase come acqua stagnante.

David prese alcuni carboncini dal tavolo e con tratti ampi e lenti abbozzò uno schizzo. Il rumore graffiante del carboncino sulla carta, il braccio che saliva e scendeva sul foglio. Sembrava inquieto, le narici erano dilatate.

«Puoi evitare di fissarmi in quel modo, per cortesia?»

Abbassai lo sguardo a terra.

«Anzi, rimettiti sulla poltrona.»

Mi diressi con piccoli passi umidicci verso la poltrona. David staccò il foglio e la mano prese immediatamente a tracciare movimenti circolari su quello sottostante.

Mi girai e appoggiai le gambe su un bracciolo, cercando di riguadagnare il controllo della respirazione. Il velluto della poltrona era logoro in diversi punti e mi graffiava la pelle. Scivolai un po’ più in basso. I miei occhi esplorarono la stanza alla ricerca di un appiglio, qualcosa a cui dedicare la mia attenzione per non avvertire più lo sguardo di David.

Le bottiglie davanti alla finestra gettavano un riflesso verde sul parquet. Non so cosa fece scattare il ricordo, forse questo colore, oppure il materasso a terra poco più in là? All’improvviso pensai al letto dei miei genitori, su cui spesso giocavo da bambina. Il vecchio materasso a molle, le lenzuola e i cuscini scarni. L’odore familiare ma affascinante, gli oggetti sul comodino; bisunti tappi per le orecchie, fiammiferi, un flacone impolverato di olio per massaggi. Il letto di due persone adulte. Da dove proveniva tutto ciò? Era una vecchia immagine, non sapevo si aggirasse ancora nel mio corpo.

Allontanai il ricordo e mi concentrai sul paesaggio boschivo accanto alle bottiglie. Tre tronchi. Il più lontano attraversava il centro della tela e gli altri due si trovavano a sinistra, con la luce alle spalle. Faggi, pensai, lisci e robusti e dalle foglie di un verde quasi trasparente. Partendo da un angolo, la mia attenzione si fece strada nel dipinto percorrendo la corteccia, e la sensazione era quella di trovarmi su un terreno conosciuto. Ma non funzionava, non riuscivo a entrare. L’illusione del dipinto era perfetta e gli alberi erano incredibilmente familiari, ma sembravano irraggiungibili. Capii che erano maestosamente soli. Era colpa della cornice, oppure non ci avevo mai fatto caso prima d’ora? Provai a ricordare le macchie di foresta vicino a casa, i faggi al margine del bosco nella nostra via. È qualcosa che ha visto, pensai, e la mia attenzione fu di nuovo attirata dal rumore graffiante accanto a me.


Quando David si alzò e si avvicinò alla poltrona, era quasi completamente buio. Non mi mossi di un millimetro. Lui prese la vestaglia dallo schienale e me la avvolse attorno al corpo. Era un gesto paterno, ma più che altro mi sembrò che volesse nascondermi. C’era un accenno di grigio tra i peli delle sue braccia, e io sentii l’odore della sua vicinanza.

«Mi spiace» dissi, e infilai le braccia nelle maniche «ero nervosa, non mi sono nemmeno alzata dalla poltrona.»

«Non importa. Era la prima volta.»

Accese la luce, portò la bottiglia d’acqua alla bocca e bevve a grandi sorsi.

«Ma almeno ti è stato utile?»

«Sì. E a te?»

Non sapevo cosa rispondere. Mi sentivo delusa e andai dietro il paravento per rivestirmi. Quindi mi riavvicinai al cavalletto. Volevo vedere gli schizzi, ma non c’era più nulla. Nel legno erano rimaste conficcate solo le puntine.

«Vuoi tornare domenica prossima?»

Scese le scale dietro di me.

«Non lo so», dissi arrivata alla porta «non credo faccia per me. Ma perché non chiedi a Sam?»

«Torna la settimana prossima.»

Mi tese una busta.

«Ci vediamo domenica» risposi.

E senza accettare il denaro, cominciai a camminare. Mi muovevo a passo spedito, radente alle case, e stringevo le chiavi tra le dita della mano sana.


Eppure c’era qualcosa del paesaggio che mi era rimasto impresso. A casa mi rannicchiai a letto, con la mente uscii in strada, con mio padre, lungo il sentiero in terra battuta che portava al bosco. Una sensazione di isolamento. Ci voleva sempre un po’ prima che arrivassero i rumori, il fruscio e il sussurrio, tra gli arbusti e più in alto, tra gli alberi. Il sentiero serpeggiava davanti a noi, qua e là riuscivo a riconoscerne un tratto tra le felci e gli arbusti. Mio padre avanzava deciso, i passi solcavano il terreno morbido. Mi tranquillizzava camminare alle sue spalle, osservarne i movimenti. Nei primi giorni dopo la morte di mia madre non era uscito di casa. Io avevo paura del suo dolore e mi rifugiavo in camera mia. Quando avevo fame, sgattaiolavo in cucina e prendevo del pane spezzandolo con le mani (ero troppo piccola per il coltello elettrico) mentre lui se ne stava seduto a tavola, curvo come una foglia secca. La seconda sera mi avvicinai per dargli un bacio, ma il suo volto era trasformato in maniera quasi spettrale.

«Papà» dissi, ma lui non mi guardò, e allora salii le scale e piansi fino ad addormentarmi.
Quando il giorno dopo prese il bastone da passeggio dal portaombrelli e disse che avrebbe fatto “un giretto”, andai nel panico.

«Posso venire con te?»

Gli avrei sbarrato la strada. Aveva l’aspetto di uno che non sarebbe tornato indietro se l’avessi lasciato uscire da solo. Ma sul suo volto comparve una timida gratitudine e fianco a fianco ci incamminammo nel bosco.

Durante queste camminate mi muovevo nel modo più cauto possibile. Per non disturbare la vita del bosco, gli animali ma anche le creature magiche di cui supponevo l’esistenza, ma alle quali non osavo pensare per paura di attirarne l’attenzione. Cercavo di osservare e memorizzare il più possibile, per ripercorrere questo sentiero ogni volta che lo volevo nei miei sogni ad occhi aperti, anche se nel mondo esterno le cose andavano storte. Nelle mie fantasie camminavo molto lentamente: un passo, ferma a osservare, un passo, ferma ad ascoltare. Mi sollevavo dal terreno del bosco, tra le chiome osservavo dall’alto l’enorme distesa verde alberata. E la notte, a letto, pensavo: com’era il faggeto in quel momento, cosa si muoveva tra i tronchi e sui sentieri?

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