View Colofon
- "Szczerze mówiąc, kochanie, nic mnie to nie obchodzi" translated to PL by Agata Wróbel,
- "Iskreno, draga, baš me briga" translated to SR by Uroš Nikolić,
- "Sincer să fiu, draga mea, mă doare-n cot" translated to RO by Mircea Dan Duță,
- "Francamente, querida, me importa un bledo" translated to ES by Daniel Ordóñez Franco,
- "Iskreno, ljubica, briga me" translated to SL by Vesna Dragar,
- "Frankly, my dear, I don’t give a damn." translated to NL by Annette Manni,
- "Francamente querida, tanto me faz" translated to PT by Stepanka Lichtblau,
Maria Gaia Belli
Cara, francamente me ne infischio
Marek, stringendomi forte, mi trascina sul letto e il suo volto viene attraversato da un’espressione che mi fa perdere del tutto l’orientamento, come se il nostro letto fosse una valanga, nella quale lui mi ha sprofondato, facendomi dimenticare dov’è l’alto e dove il basso. Tutta la scena, la stretta e la sua espressione, dura appena un secondo, un momento dopo mi estrae dalla valanga e, anche se mi trovo ancora in posizione orizzontale, mi è talmente chiaro dove sia l’alto e dove il basso, da sembrarmi quasi sospetto. E solo a questo punto ne prendo coscienza, solo adesso capisco, anche se solo a metà, mi balena semplicemente in testa, come quando qualcuno accende all’improvviso la luce, per poi spegnerla di scatto. E voi sapete di aver intravisto qualcosa, ma non siete del tutto sicuri di cosa fosse, e quando la luce si spegne, non sparisce, ma continua a galleggiare da qualche parte nello spazio. Continuate inutilmente a cercarla a tentoni, ma più il tempo passa, più vi chiedete: «Ma c’è stato davvero qualcosa? O era solo un’illusione ottica?». Brancolo in questo tunnel ostile, senza vedere in fondo la luce e, nel mio cervello, le informazioni non ne vogliono sapere di combinarsi in un codice comprensibile. È un codice cifrato, numeri uno e numeri zero, ma che cosa farci con tutti questi numeri? Che me ne faccio?
Ho bisogno di rivedere la scena. Di fermarla. E ingrandirla. Di esaminare quel collasso gravitazionale durato appena un secondo. L’apparizione di qualcosa di estraneo in un corpo così intimo. Una sfumatura a cui non riesco a dare un nome, poiché non si è trattato di nulla di concreto, no, niente smorfie, niente ammiccamenti, niente nasi arricciati e nemmeno quella stretta, no, nulla di tutto questo. Ma c’era qualcosa. Qualcosa! Sì, qualcosa di estraneo. Ma c’era davvero qualcosa? E se invece fossi proprio fuori strada… paranoica, visto che è stato via per così tanti giorni e che i miei sensi non si erano ancora riabituati alla sua presenza, e nel frattempo mi aveva già stretto a sé con tanta eccitazione? Non lo so. Il tunnel.
Ma ecco che Marek ha già appoggiato l’avambraccio accanto alla mia testa, mentre la sua lingua lascia sul mio collo un’impronta umida e calda, e io so che è troppo tardi, che la scena è ormai troppo lontana e che non riuscirò più a verificare nello specchietto retrovisore se quello che abbiamo appena investito era un gatto o un vecchio straccio. Al contrario, la mia testa e il mio corpo si irrigidiscono appena e non c’è più nulla da fare. Anzi, una cosa da fare c’è. Marek struscia il suo ventre contro il mio, colpendo il mio inguine destro attraverso i pantaloni. Perquisisce con la mano la mia pelle sotto la maglietta, mentre il suo respiro affannoso annega tra il mio orecchio e il cuscino. E io penso ai numeri uno e ai numeri zero, penso alla costellazione di qualche istante fa e mi chiedo se devo fermarlo e spiegargli che cosa ho visto e sentito, anche se non so se c’è stato davvero qualcosa e che cosa fosse, o se devo continuare a fare ciò che stiamo facendo. Non riesco a prendere una decisione, ma nel frattempo sollevo automaticamente il bacino, in modo che riesca a sfilarmi gli slip con più facilità.
E poi mi viene in mente Eliška, che, con metà del viso nascosta dietro a una bottiglia di prosecco, mi dice: «È stata una cosa strana, non so… Come se fossi andata a letto con un altro».
«Non sarà stato in sé, dai», rispondo io. «Può succedere che uno abbia la testa altrove…»
La mano di Marek infila la mia nei suoi boxer.
«No, non intendevo questo. Non è andata così. Non era strano in questo senso… Al contrario», dice Eliška. Fa un respiro profondo, allungando la mano verso la bottiglia di prosecco per versarsene un po’, e continua: «Era come se si fosse liberato dalle catene». Marek mi morsica leggermente un capezzolo. Fa un po’ male. Mi morde mai i capezzoli? Non riesco a ricordarmene!
«E perché ti dà così fastidio? Dovresti essere contenta, no?», avevo buttato lì, cercando di alleggerire la situazione, ma Eliška non lo trovava divertente.
«Non mi avrebbe dato fastidio… se… se non fosse stato così diverso… non lo so».
«Magari ha solo visto un film porno. E voleva provarci».
Il corpo di Marek si fa più pesante.
«Non puoi capire», aveva detto, facendo un gesto con la mano. «Non lo so… ecco». Mi ero resa conto che Eliška lottava con i suoi pensieri e con le parole che aveva sulla punta della lingua, ma alla fine non era riuscita a terminare la frase. Aveva perso la sua battaglia. Anche se sapevo bene quali fossero i pensieri che la tormentavano e lei sapeva che io lo sapevo, non aveva detto nulla ad alta voce. Penso di conoscerne il motivo. A volte le cose diventano reali solo perché sono state dette ad alta voce.
Marek scivola dentro di me come un pesce. E in questo momento è lui, il mio Marek, adesso lo riconosco con certezza. Perché, proprio in momenti come questo, mi sembra così vulnerabile. Indifeso. Un bambino piccolo, che ha bisogno di nascondersi di corsa. È dentro di me, i suoi movimenti si arrestano per un momento e io lo avvinghio con le cosce. Sono per metà eccitata e per metà ancora nel tunnel.
Che strano, non ricordo di aver riparlato con Eliška di quella sensazione. Lei non è più tornata sull’argomento e io non le ho più chiesto nulla. È come se non ne avessimo mai parlato. E forse, nella sua testa, è davvero come se non avesse mai vissuto con suo marito quella strana esperienza. Cammino nel tunnel, cammino verso il buio, un buio pesto, davanti a me il nulla, ma quando mi giro, qualcosa dietro di me si muove. Mi volto e vedo nitidamente delle scale e Clark Gable. O meglio Rhett Butler, con in mano una valigia, che Scarlett O’Hara, in lacrime, gli vorrebbe strappare di mano. Difficile capire che cosa ci faccia qui nel tunnel, ma la scena me la ricordo alla perfezione. L’ho vista da piccola, forse all’epoca non andavo nemmeno a scuola, la mamma stava preparando il pranzo e il piccolo televisore sopra il frigorifero trasmetteva Via col vento. Io giocavo oppure dipingevo dietro la vecchia macchina da cucire della mamma e seguivo affascinata quella scena. Forse stanno litigando, avevo pensato, ma non ne ero sicura. Perché se stavano litigando, lo facevano in modo molto diverso dai miei genitori. La mamma non implorava mai come Scarlett e il papà non faceva mai la smorfia distaccata di Rhett. Non ricordo che cosa si fossero detti, non so se all’epoca avessi dato un senso alle loro parole, rammento soltanto la strana energia che percepivo guardando la scena. E anche che lei piangeva e lo rincorreva, mentre lui la guardava dall’alto in basso con la sua espressione scaltra, non si liberava dalla sua stretta in modo aggressivo e non alzava la voce, si faceva soltanto strada verso l’uscio con la valigia. E alla fine se n’era andato per davvero. Avevo subito iniziato a piagnucolare e avevo chiesto alla mamma se lui l’avesse abbandonata. La mamma aveva detto di no, che era soltanto andato via.
«Ma se hanno litigato!»
«Sì, perché lei sentirà la sua mancanza».
«E dov’è andato?»
«E dove vuoi che sia andato? A lavoro».
«E a che gli serviva la valigia?»
«La valigia? Stava partendo per un viaggio d’affari».
Penso che ci fosse qualcosa che non mi tornava, ma alla fine c’ero cascata e avevo creduto alla mamma. Forse avevo voluto crederle. Forse le persone, per loro natura, si lasciano ingannare consciamente fin da piccole pur di non soffrire, in modo che ogni dubbio venga spazzato via dalla loro mente.
La testa di Marek e il suo corpo si sollevano leggermente, mentre si raddrizza sopra di me. Mi dice di girarmi. Lo guardo e cerco di ricordare se me l’ha detto come il mio Marek, come il Marek che conosco, o come il Marek che poco tempo fa, magari giusto ieri, si è scopato un’altra. E se non volesse guardarmi in faccia? Magari vuole immaginarsi un’altra al posto mio. Marek me lo ripete e io mi metto carponi e aspetto che mi prenda anche in questa posizione.
Potrebbe sembrare che io, nel tunnel, mi sia imbattuta in Rhett Butler e in quella malvagia bugia della mamma solo perché Marek è appena tornato a casa dopo tante settimane. Ma non credo, no, non per questo Rhett è lì con la sua valigia, non è per questo motivo che sta scendendo le scale davanti a me, che mi sta scrutando con il suo sguardo scaltro… Deve esserci un’altra spiegazione, perché la mia storia, o meglio la storia della mamma con Via col vento non finisce certo qui. Più o meno tredici anni dopo, poco prima della maturità, dovevo preparare assieme a una mia compagna di classe una ricerca di storia sulla Guerra di Secessione americana. Difficilmente avremmo potuto fare a meno di citare quel libro e quel film che, fra parentesi, non avevo più visto da quando avevo all’incirca cinque anni e che non rivedrò mai più. Ed era stata la mia compagna di classe a dire che comunque l’ultima frase di Rhett Butler era rimasta nella storia più di qualunque altra cosa. Naturalmente non avevo idea di che cosa stesse parlando.
«Ma sì, lei lo implora e lo prega di non lasciarla, poi gli dice: Ma che farò senza di te? Come farò a vivere?... Qualcosa del genere… E lui la guarda e le risponde: “Cara, francamente me ne infischio”».
«Aspetta un momento», dico io, «come di non lasciarla… ma se è solo andato a lavoro…». La mia compagna di classe mi aveva guardata come se fossi un’idiota. «In che senso a lavoro?».
La mano destra di Marek mi afferra un seno, l’altra mano mi atterra su un fianco.
In che senso a lavoro, in che senso a lavoro, avevo sollevato le spalle e stavo già per tirare fuori la storia del viaggio d’affari, per quello aveva la valigia, ma poi per fortuna ho capito tutto prima di dirlo ad alta voce. Che idiota! Ero scoppiata a piangere. La mia compagna di classe non capiva nulla, non gliene faccio una colpa. All’epoca la mamma era già morta, pertanto non potevo rinfacciarle la sua bugia, ma era tutta colpa sua. Forse potevo farmene una ragione e, da persona adulta, accettare che la mamma quella volta avesse provato compassione, non voleva che quella faccenda mi facesse star male. Solo che io non riuscivo a vederla così. Ma forse non aveva pensato a me, ma alla sua tranquillità, perché sapeva che, se avesse confermato le mie preoccupazioni, avrei passato tutto il giorno a piagnucolare, cosa che mi succedeva spesso con i film. Forse non mi aveva detto in faccia la verità perché voleva finire di preparare il sugo in santa pace senza dovermi asciugare il moccio. Ma non si era assolutamente resa conto di che cosa aveva causato! Avrei potuto vivere fino alla fine dei miei giorni prigioniera di questo errore fatale! E sarebbe stata solo colpa sua! Perché, già all’epoca, il mio intuito mi aveva suggerito quale fosse la verità. Solo che io, invece di crederci, mi ero lasciata abbindolare. Ingannare. E poi, dopo così tanti anni, all’improvviso la verità era venuta a galla! Ma cosa potevo fare adesso? Che me ne facevo ora di una verità del genere?
Nulla! Numeri uno e numeri zero.
Non avessi mai fatto quella ricerca a scuola!
Il sudore di Marek mi gocciola sui fianchi. Lavoriamo come una macchina regolata alla perfezione. Volto la testa oltre la spalla, voglio guardarlo in faccia. Intercetta il mio sguardo e mi afferra con più forza, con entrambe le mani sopra il sedere. Mi giro di nuovo. I movimenti di Marek si fanno più rapidi. E poi si fermano.
Un sospiro di sollievo da qualche parte sopra di me.
Molla la presa e io mi appoggio sulla pancia. Marek si appoggia su di me.
Respira affannato. Respiro anch’io.
Torno a guardare Rhett Butler, è sulla porta, con la valigia in mano. Mi sorride. Lo saluto con la mano. Sta partendo per un viaggio d’affari.