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- "Een paar maanden later" translated to NL by Staša Pavlović,
- "Alguns meses mais tarde" translated to PT by Barbara Jursic,
- "Kilka miesięcy później" translated to PL by Joanna Borowy,
- "Nekoliko meseci kasnije" translated to SR by Jelena Dedeić,
- "Dům v Haifě" translated to CZ by Kateřina Honsová,
- "După câteva luni" translated to RO by Paula Braga Šimenc,
- "Unos meses más tarde" translated to ES by Xavier Farré,
Maria Gaia Belli
La casa di Haifa
Alcuni mesi dopo
12 agosto
«Mohammad, tra mezz’ora tieni il telefono a portata di mano. Credo di averla trovata!»
Balzo giù dal letto, mi vesto in preda all’agitazione il più rapidamente possibile e mi lascio l’ostello alle spalle. Rapido. Come se cambiasse qualcosa se arrivo alla casa con cinque minuti di anticipo o di ritardo. Percorro quasi correndo la discesa che conduce al porto, sospesa tra l’odierno quartiere ebraico Hardar Carmel e l’ex quartiere palestinese Wadi Salib. Faccio in tempo a sentire lo stridio di una sega che forse taglia del ferro. E anche galli e galline. Insolito. Odore di campagna nel bel mezzo di una città che vorrebbe cancellare la storia e il passato, e aspira alla modernità. Come se fossi tornato al 1948, quando, proprio da questa collina, l’Haganah circondò gli abitanti palestinesi per costringerli a imbarcarsi sulle navi dirette ad Akka, sulla riva opposta della baia, e da lì farli proseguire per il Libano e la Siria. Tra i profughi c’erano il padre di Mohammad, Suleyman, la madre Samira, il nonno Daud, la nonna Bagdad, la zia Habiba... Quel 22 aprile del 1948 non immaginavano che non avrebbero mai più messo piede su questa terra. Non sapevano che i loro figli e nipoti non avrebbero mai visto Haifa.
Ripido questo versante del Monte Carmel. Dopo due impietose scalinate in discesa e oltre due strade dai semafori all’ultimo grido, raggiungo via Wadi Salib col fiato grosso. Cerco il civico numero 16. Quando, poco fa, la sorella di Mohammad mi ha comunicato di aver trovato un documento ingiallito di Daud con su riportato questo indirizzo, ero convinto di averla già vista questa casa. Sbagliato. Qui c’è il civico numero 17 e altri civici. E un parco con tanto di palme, prato curato e marciapiede. Lì invece c’è un cantiere su cui crescono palazzi prossimi venturi e sullo sfondo torreggia il monstrum – un edificio in vetro di non so quanti piani che sembra una gigantesca astronave dalla punta acuminata. Là c’è la moschea. E laggiù, verso il mare, si stagliano le gru bianco-rosse del porto. Solo il civico numero 16 non c’è. Ma una di queste case deve pur essere quella giusta. Mi assale una serie di domande.
La casa è stata distrutta? I sionisti dopo la nakba hanno smembrato questa strada come il cimitero qui vicino e ora la casa ha un altro indirizzo? O hanno solo modificato i numeri civici?
Mi dirigo verso il prossimo quartiere. Wadi Nisnas. La maggior parte della comunità palestinese vive qui ora. Devo telefonare a Mohammad. Ma preferirei non farlo. Mi chiedo se non gli ho forse detto troppo presto della casa. Avrei dovuto pazientare e accertarmene, invece di farmi prendere dall’euforia e trasmettergli una mezza informazione non verificata.
«Scusa, non sono ancora riuscito a trovarla. Ma ci sono vicino. Ora so in che strada si trova. Ho in mente un paio di case, forse una decina in tutto. Una di queste potrebbe essere la tua.»
«Non ti preoccupare. Basta che lasci lì lo scialle di mia madre.»
«Certo.»
Prima della mia partenza, Mohammad mi aveva consegnato al bar Shakira uno scialle di cotone. Scrupolosamente conservato. A motivi geometrici, color verde acqua, turchese e bordeaux. Voleva lasciassi qualcosa di suo ad Haifa. Gli chiesi quale fosse la storia dello scialle. Ma dal suo volto capii che quello non era il momento giusto per sperare in una risposta. «Te lo dico quando torni.»
Proseguo la mia camminata attraverso Wadi Nisnas. Arrivato ai Giardini Baha’i, mi giro verso nord e procedo un altro po’ in direzione del mare, fino a Fattoush. Un ristorante con giardino rigoglioso, ottimo cibo palestinese e un eccellente caffè al cardamomo.
Mi metto ad aspettare l’attivista palestinese Jafar Farah a uno dei tavolini di legno. Non sono il primo a venire ad Haifa sulle tracce di una casa. Quest’uomo dai folti baffi e ancor più folti capelli sa a chi bisogna rivolgersi in questi casi. Mi elenca tutte le persone che dovrei contattare.
Poi mi guida alla sua macchina. Inserisce sul GPS “Wadi Salib Street 16”. L’apparecchio trova l’indirizzo e ci conduce a est del porto, verso una strada che già conosco. Sono convinto di essere a un passo dal ritrovamento. Ci stiamo avvicinando al civico numero 16. Una voce femminile annuncia: la destinazione è sulla vostra destra. Guardo a destra. Ma vedo solo il parco. Quel parco con palme, marciapiede e un prato quasi all’inglese. La casa era qui, ma è stata rasa al suolo? Forse. Tuttavia preferirei affidarmi agli esperti in materia piuttosto che alla navigazione satellitare. Intendo incontrarne almeno qualcuno.
13 agosto
Contatto le persone segnalatemi da Jafar. Walid Karkabe mostra parecchio interesse per la storia. Ha accesso agli archivi. Mi promette di consultare delle vecchie mappe. E ricevo altre informazioni dalla sorella di Mohammad. Sul documento che ha trovato, forse, non è riportato l’indirizzo di casa, ma quello del salone da barbiere di nonno Daud. Questa la mia conclusione dopo la nostra conversazione. Non so se voglio convincere soprattutto me stesso che c’è ancora speranza, o la sua spiegazione è davvero interpretabile in questo modo. Un mistero inestricabile che si potrà risolvere solo visionando il documento. Me lo manderà. Devo solo attendere un altro po’.
Tutte queste informazioni mi spossano. Corro a cercare riparo da Fattoush per rifugiarmi in hummus e labneh. Ho la testa pesante, mi sento pesanti anche mani e piedi. Non mi va più di muovermi. Ma perché sono venuto qui? La casa, il vicinato, via Wadi Salib, il salone del nonno, i lineamenti di Rahel, l’ebrea di buon cuore... di tutto questo Mohammad negli anni si era fabbricato una propria rappresentazione mentale. E io ora questa illusione gliela vado a sradicare. Come i sionisti hanno sradicato le case palestinesi. Me l’aveva detto che per sopravvivere si era dovuto immaginare la libertà. E io ora gli vado a calpestare anche questa sua immagine. È peggio perdere la casa o l’illusione? È meglio conoscere la verità o avere fede? Mohammad non è credente, come me del resto. Dunque, la risposta è evidente. La verità, però, pesa più della fede.
14 agosto
Mi telefona Walid. «La casa al civico 16 non esiste più.» Ora sul sito c’è un cantiere dove stanno costruendo centottanta appartamenti di fianco al parco. Mi inoltra una mappa con su segnato a crocetta il luogo in cui si trovava la casa. Ora ho la prova. Non c’è più. Non so se la casa o il salone di Daud. So però che accanto alla casa c’era una scalinata che si inerpicava sul versante del Monte Carmel. E che vicino al salone c’era un bar – Radio cafè. Devo telefonare a Mohammad.
«Spero tu non sia troppo triste.»
«Sono contento.»
«Contento?.»
«Sì. Perché la mia voce ora è in Palestina.»
«La tua voce?»
«Sì. Perché ora che stiamo parlando, l’eco della mia voce, grazie al telefono, giunge fino ad Haifa.»
16 agosto
Incontro Majid Khamra, autore di un libro sulla storia di Haifa. Mi conduce al cantiere. «Qui non c’era nessun salone da barbiere» afferma perentorio. Mi fa cenno di seguirlo. Percorriamo forse una decina di metri in direzione sud-est e attraversiamo la strada. Scendiamo lungo via Omar el-Khatab e giriamo a sinistra. Passiamo davanti a edifici dove ora c’è il mercatino delle pulci e dove un tempo c’erano le botteghe dei palestinesi. Vediamo il minareto e alle sue spalle il monstrum di vetro. Dopo circa altri dieci metri, Majid si ferma e si gira verso sinistra. «Il salone da barbiere era qui». Indica una saracinesca in alluminio ad angolo di un edificio a due piani in pietra araba. «Sulla saracinesca pochi anni fa era ancora visibile la scritta Al Itihad, Unità». Forse era il nome del salone di Daud. «Qui vicino c’era il Radio cafè.»
Credo di avere la risposta. La casa era lì, nel tratto su cui oggi crescono futuri appartamenti, il salone non è stato ancora abbattuto. Dalla gioia abbraccerei Majid. La casa non c’è più, ma il salone c’è, e io ho una risposta. Il viaggio non è stato inutile.
Ultima controprova. Apro la mail della sorella di Mohammad. Ha trovato un documento del 1943 sui cui è riportato l’indirizzo di casa di Daud – Wadi Salib 16. Ora è certo. La casa non c’è più. L’edificio al cui interno c’era il salone, invece, è ancora in piedi.
Attendo si faccia sera, quando Wadi Salib e le stradine circostanti si svuotano. Prendo la busta con lo scialle. Scendo di nuovo lungo le due scalinate e attraverso le due strade dai semafori moderni. Cammino per il parco. Mi accompagnano il profumo intenso di citronella e di rosmarino. Supero palme e ulivi ed eccomi al cantiere.
No, lo scialle non lo posso lasciare qui in questo deserto di cemento. Proseguo verso le case ottomane. Scelgo una scalinata arcuata che confina con una casa. Una casa mezza distrutta, senza tetto, ma con delle belle arcate sovrastanti le porte e lo spazio centrale dove forse una volta c’era il cortile. Mi prendo del tempo. Faccio con calma. Osservo la busta con lo scialle. Vorrei che la sua storia non si fermasse qui. Ha viaggiato dalla Siria alla Slovenia e ora è di nuovo in Medioriente, è di nuovo qui, nel luogo dove sono cresciuti i genitori di Mohammad. Forse qualcuno lo troverà. Lo userà di nuovo o lo regalerà. Oppure qualche operaio farà in tempo a notarlo e lo porterà a casa dalla moglie o dalla figlia. Comunque sia, un pezzo della famiglia rimarrà qui, alle radici precluse di Mohammad, in un luogo dove lui non si può recare.
Torno indietro verso il cantiere. Cerco di immaginare come viveva Daud. La mattina dava un bacio a Bagdad, Habiba e Suleyman, chiudeva l’uscio della casa di via Wadi Salib 16 e si recava a lavoro. Appena uscito di casa, incontrava la vicina, Rahel. Si scambiavano un sorriso e con poche battute concordavano quando Rahel avrebbe potuto badare al piccolo Suleyman. Volgo lo sguardo verso il mare, distante un centinaio di metri circa, nel punto in cui forse un tempo era ormeggiata la barca di Daud. Ho l’impressione di camminare sui suoi passi, mentre mi avvicino al salone da barbiere percorrendo via Omar el Khatabi. Forse prima di aprire la saracinesca si andava a prendere un caffè al cardamomo al bar Radio cafè. Poi si preparava a ricevere i clienti e nel frattempo discuteva degli eventi del giorno con i proprietari delle botteghe circostanti. Di cosa parlavano il 20 aprile 1948? Già sapevano che dopo uno, due giorni sarebbero stati scacciati dalla città? E come hanno fatto a sottrarsi alla violenza dell’Haganah? Con tanto di bagagli e bambini al seguito.
Vado verso ovest, su una strada un po’ in salita che un tempo si chiamava Stanton Street. Arrivo a un edificio ovale di quattro piani, una delle più grandi e più note costruzioni palestinesi ancora conservate in città. Stanton Street 83. Qui c’era il medico di Daud, il dottor Kemal. Volgo lo sguardo al cimitero, distante appena una manciata di metri dallo studio medico. Vedo lapidi abbattute, tombe abbandonate, il proliferare incontrastato delle erbacce e la strada che l’ha spezzato in due. Daud e Bagdad, Suleyman e Habiba. Sarebbero stati sepolti qui. Arrivato alla sezione superiore del cimitero, mi giro e torno indietro verso il salone e verso la moschea. Percorro l’area entro cui Daud si muoveva durante la giornata.
Raggiungo anche la palma. Me ne scelgo una nel parco vicino al cantiere e le do un bacio. Eseguo quello che Mohammad mi ha pregato di fare.
«Un saluto da Suleyman. E Daud. Mohammad. Samira. Bagdad. Habiba...».
1° settembre
Mohammad si nasconde la parte inferiore del viso con la mano e fissa in silenzio il computer. Guarda il video di me in cima a una scalinata di Haifa mentre lancio lo scialle in una casa abbandonata.
«Va bene così?» chiedo.
Silenzio.
«Hai qualcosa da dire?»
Sposta la mano dalle labbra. Gli si illumina il volto.
«Ora vorrei avere mia madre vicina.»
Andiamo a fumarci una sigaretta sul balcone.
«Ti ho dato lo scialle di mia madre per fartelo portare ad Haifa. È il mio DNA. E lì ora c’è una casa nuova. La vecchia non esiste più. Passo dopo passo, tutto finisce. Fine. Guardandoti lanciare lo scialle nella casa, avrei voluto allungare la mano per riacchiapparlo.»
Poso sul tavolino il sapone all’olio di oliva, una bustina di cardamomo in polvere da Nablus e una tavoletta di legno comprata a Ramallah con su incisa una citazione di Darwish.
«Mahmud Darwish diceva che la patria è memoria. Sei d’accordo?» gli chiedo.
«La riposta è in Profumo di Patrick Süskind. La memoria è olfatto. Se mischiamo tutto quello che abbiamo ora sul tavolo, ne sgorgherà un nuovo odore, una nuova memoria. Me lo ricordo ancora il profumo dello scialle di mia madre.»
«Ti ricordi quando te l’ha dato?»
«Quando è morta, le ho preso la mano. Era ancora tiepida. Lo scialle lo aveva al collo. L’ho preso e me ne sono andato. Non ho pianto.»
Poi l’ha conservato nell’armadio. E qualche volta se l’è avvolto al collo, in Siria, in Slovenia, durante il viaggio. E a Ljubljana, all’epoca della richiesta di asilo, quando, in quelle notti di angosciosa attesa, aveva la sensazione che il mondo intorno a lui gli si stesse sfracellando addosso, allora lo ’usava come coperta.
«Lo scialle, al tatto, ha una tessitura simile a quella della pelle di mia madre. È morbido, soffice. M’è venuta un’allegria...!»
«Ma lo scialle non ce l’hai più!»
«Ah... l’importante è che abbia lasciato la Siria. Non voglio che i miei ricordi restino da Assad.»
E ora lo scialle è in Palestina. Una Palestina che, adesso, nella percezione di Mohammad non è più quella di prima. «In guerra i miei ricordi si sono danneggiati. Città distrutte, gente ammazzata. Questo è la mia memoria ora. Della Siria. Prima era della Palestina. Una memoria che mi ha trasmesso mio padre che a sua volta l’ha ricevuta da suo padre. Ma ad Aleppo non c’è pietra che non conosca. Questo ora è la mia memoria.»
Ma non è monocroma la sua memoria in realtà, è tricroma. «Ho tre patrie, tre popoli e tre memorie. Alle volte si compenetrano, altre volte invece no. Accade che una sia più viva delle altre due. Mentre tu stavi in Palestina, si è ravvivata quella parte di memoria. Il mio sentire era con te. Tu eri lì e io qui. Che follia...»
Quando ci capita di parlare di memorie, non possiamo evitare lo scoglio di quello che ancora non si ha.
«Sai, ho scritto di te» continua Mohammad.
«Veramente?»
«Sì, ho scritto che sei un uccello. Ti sei seduto su un aereo e hai volato, prima in un verso e poi nell’altro»
«Volare per te invece è fuori questione?»
«Volare... Mi piacerebbe volare. Ovunque mi porti il desiderio. Forse tornerei, forse no. Però mi piacerebbe provare.»
«E lo sai dove preferiresti fermarti?»
«Il futuro non lo posso prevedere. Però una cosa la so. Se mai andassi in Palestina, me ne vorrei tornare molto presto. Se invece andassi in Siria... non lo so. Non lo so.»