View Colofon
- "Fire" translated to RO by Irina Kappelhof Costea,
- "Provázky" translated to CZ by Veronika Horáčková,
- "Nici" translated to PL by Ewa Dynarowicz,
- "Niti" translated to SR by Aleksandar Đokanović,
- "Fios" translated to PT by Lut Caenen,
- "Vezi" translated to SL by Ariela Herček,
- "Hilos" translated to ES by Carmen Clavero Fernández,
Maria Gaia Belli
Fili
La ricerca inizia senza volerlo. Mi sento legata a lei in maniera allarmante, inspiegabile, e la sua scomparsa mi lascia carica di domande. Quando mi sveglio mi chiedo dove dorma e che vita faccia, e continuo a pensare a lei mentre osservo le nuvole dalla finestra sul tetto e mi masturbo tra le lenzuola, una sensazione morbida e lanuginosa. Quando passo davanti alle bancarelle della frutta del nostro quartiere sfioro le arance con la punta delle dita finché non ne trovo una che mi ricorda lei, con la pelle perfetta.
Ero finita nel suo corso per via di un dolore persistente al collo. Il chinesiologo mi aveva consigliato quel tipo di yoga, lo Iyengar, perché prevede l’uso di supporti con cui i principianti troppo tesi come me possono esercitarsi in maniera sicura. Ero entrata nello studio e mi ero subito innamorata di corde, blocchi e cuscini disposti con ordine lungo le pareti, della promessa di controllo, di potere, che sprigionava l’intero ambiente. Ma presto mi ero accorta che lo scopo di quegli strumenti era proprio farmi rinunciare al controllo. L’unica nota positiva della prima lezione era stata la posizione savasana finale, in cui avevamo dovuto giacere come morti. La meravigliosa immobilità dello stare sdraiati, mentre lei camminava tra i nostri cadaveri. Continua a respirare, segui il respiro come un filo che passa dal naso, sopra il labbro superiore. Concentrati sul respiro.
Avevo odiato da subito gli altri partecipanti, il modo in cui sembravano fluttuare per strada con i tappetini arrotolati, le voci indolenti, il loro sedersi in disparte nella posizione del loto prima della lezione. Sognavo di strappargli di mano le borracce colorate e fargli tremare le labbra per l’indignazione. Detestavo tutti gli appassionati di yoga nei paraggi, tranne lei.
Era il modo in cui sollevava e raccoglieva i capelli forti e neri in uno chignon, che nel corso della lezione scendeva lentamente fino a quando l’elastico scivolava via e la chioma le ricadeva sulla schiena. Era la sua figura fiera e minuta, la pace che trasmetteva quando sedeva a gambe incrociate, l’aura che emanava. Era la combinazione di tutto questo, il modo in cui infilava la maglietta nei leggings durante la posizione a candela, quel gesto pudico con la mano, il modo in cui allargava le corte dita dei piedi e le affondava nel materassino, come le zampe di un geco. Come se riunisse in sé qualcosa che in genere rimane separato, qualcosa che non si riesce a mettere insieme nemmeno con tutto il controllo del mondo.
Quei capelli. Ne avevo sentito il profumo per la prima volta svolgendo un esercizio insieme. A chi pratica yoga piace moltissimo fare esercizi insieme. Fortunatamente lei li faceva quasi sempre con me, perché gli altri avevano paura della mia ossessione per il controllo e della mia irrimediabile rigidità, e formavano subito le coppie lasciandomi sola. Restavo il più possibile ferma mentre lei mi tirava indietro le spalle, mi premeva sulle vertebre o mi sorreggeva il collo, scandendo le sue formule di saggezza yoga. Tutto è collegato, pelle e tendini, ossa e muscoli. Se cambia qualcosa nella tua postura, cambia tutto. Allora mi perdevo nel profumo di quei capelli, come legna fumante, un profumo che faceva impazzire, immaginavo di toglierle l’elastico e infilare la mano in quel sipario drammatico, le dita avvinghiate alla sua chioma.
Durante l’inverno la incontrai per strada, stupita di vederla con indosso vestiti diversi da quelli da yoga, di questa nuova combinazione con il colore della pelle e degli occhi, una combinazione non meno piacevole. Scoprimmo di abitare nello stesso quartiere. Mentre mi raccontava come fosse finita qui, guardai la sua sciarpa color ocra e la immaginai sdraiata a terra mentre io le incrociavo le estremità della sciarpa sotto le scapole e le sollevavo fino a tendere il tessuto e ad allungarle la spina dorsale, lentamente, vertebra dopo vertebra, così come lei aveva fatto con me la settimana precedente, con una corda, durante la lezione. Non so perché il gesto, questo essere tirata, mi emozionasse tanto. Respira e lasciati andare, diceva mentre imprimeva forza. Se trattieni il respiro, il tuo corpo va nel panico. Continuare a respirare significa che tutto va bene, e il corpo si adegua.
Una settimana dopo ci aveva chiesto di legare le corde tra loro e di infilarle agli anelli di metallo fissati alla parete, dopo di che eravamo rimasti appesi a quelle strutture come prigionieri. Era puro abbandono, quel respirare a testa in giù, una forma di sottomissione. Dopo l’esercizio abbassò le luci e ci fece riposare sui tappetini. Sbirciai tra le ciglia. La luce gialla, il rumore della pioggia sulle finestre, quei capelli raccolti, tutto trovava un posto attorno al suo profilo, forte e silenzioso. Sentivo scendere i fluidi corporei e pensai alla casa in cui ero cresciuta, ai giorni luminosi e ordinati che vi avevo trascorso da bambina. Pensai ai miei famigliari in quella casa, che giravano per stanze meno piccole, meno buie di quanto mi sembrino ora. Quando era avvenuto quel cambio generazionale? Da quando quelle persone avevano le rughe e i mobili erano impolverati? Il suo piede con le dita aperte accanto alla mia testa e la sua voce; la prima causa della sofferenza; non ci sono certezze, tutto cambia.
Due mesi dopo scoppiò la pandemia e il mondo cambiò per davvero, il centro yoga chiuse i battenti e lei scomparve dalla mia vita. O meglio, io mi dico che si tratta di un cambiamento, non di una scomparsa. Così come una chiave non scompare, ma finisce in un altro posto, così come i nostri genitori muoiono e anni dopo ritroviamo le tracce che hanno lasciato nel nostro modo di pensare. O così come una nuvola cambia la sua struttura. Ma se non è scomparsa, allora dov’è?
Inizio a cercarla nel quartiere. Cammino per le strade deserte, davanti alle vetrine dei negozi chiusi, lungo i bar al buio con gli sgabelli sul bancone, e mi domando cosa starà facendo. La piazza in cui c’era il mercato ogni mattina appare inerte alla luce del sole. Schegge di vetro scricchiolano sotto le suole delle mie scarpe. Supero l’incrocio in cui ci eravamo incontrate e giro l’angolo, presumo che viva da queste parti e mi guardo intorno. Piante da appartamento sul davanzale di una finestra, dorsi di libri scoloriti, c’è profumo di zuppa e detersivo per piatti. Nel mio stomaco si forma un piccolo grumo di nostalgia. Sulla strada per casa supero una libreria e il mio sguardo incrocia un tascabile in vetrina. Il titolo recita L’impermanenza è una buona notizia. Sento un sapore strano in bocca. È come se qualcosa di indefinibile si stesse spostando nel mio corpo. Mi fermo. Penso continua a respirare, il corpo si adatta. La sensazione se ne va e riprendo a camminare.
Mi chiedo se sono ricaduta nel mio bisogno di controllo. Ma questa non è una ricerca nevrotica quanto piuttosto un’attesa, un vago desiderio. Ho preso a muovermi con più libertà e il collo mi fa decisamente meno male. Ogni tanto dimentico il dolore quando mi chino sul piatto o mi abbasso a raccogliere qualcosa da terra. In questi giorni mi sento stranamente maldestra – che sia per la mancanza di contatti sociali? Mi verso il caffè sul maglione invece che in bocca e sento il bisogno di vestiti larghi, di pantaloni meno aderenti. Di sandali al posto delle solite, ormai logore scarpe chiuse. E poi mi guardo attorno, non mi sono mai guardata attorno così tanto durante una camminata, io che in genere mi sposto decisa da un punto all’altro. Osservo i cavi dell’elettricità tesi sopra le strade, una pianta rampicante sulla facciata di una casa, e penso alle corde nello studio per lo yoga. Immagino la mia mano mentre si perde nella sua chioma, si chiude a pugno in quella morbida abbondanza e avvicina la sua
testa alla mia.
Ora la primavera è iniziata sul serio ed esco per la prima volta senza giacca. Tra gli edifici si respira un’aria spessa e satura, non ci sono più abituata, allo sbiadire dei confini tra dentro e fuori. Il dolore al collo se n’è andato del tutto, allungo le braccia all’indietro e traggo piacere da questo movimento, da questo respirare a pieni polmoni. Cercarla è diventata una parte delle mie camminate, lo faccio senza rifletterci, come un’abitudine di cui hai dimenticato lo scopo, o come un animale che si muove seguendo l’istinto.
Cerca qualcosa? chiede un ragazzo mentre percorro il vicolo in cui presumo che lei abiti. La domanda mi fa sobbalzare.
No, rispondo, e poi, raccogliendo i pensieri; cerco qualcuno, una donna che abita qui.
Il ragazzo sta appiattendo degli scatoloni sull’uscio. Poco lontano un gatto si infila tra le auto in sosta.
Che aspetto ha?
Trovo difficile rispondere, non sono brava a ricordare i volti perché cambiano in continuazione.
Piccola, dico infine, capelli lunghi, scuri. Tratti asiatici.
Ha una foto?
No.
Ci guardiamo negli occhi. A un tratto lascia cadere le scatole e fa per rientrare.
Era la mia insegnante, dico, come se quello spiegasse tutto.
Quella sera a letto ripenso a lei. Faccio sempre più fatica a ricordarla, ma questa vaghezza non genera distanza, anzi, mi sembra più vicina che mai. Con l’orgasmo è come se avvertissi delle branchie che si espandono.
Il giorno successivo gironzolo fino al parco e lì accade qualcosa di strano. Mi siedo nell’erba sotto un albero e senza pensarci ripiego i piedi sotto il sedere. Non l’avevo mai fatto prima. Di solito le articolazioni mi fanno male già solo incrociando le gambe, eppure ora sono inginocchiata e mi guardo attorno come se niente fosse, con i rami pesanti del castagno che dondolano sopra la testa. Mi alzo e cammino intorno all’albero. Mi muovo in modo diverso? Fisso le dita dei piedi nei sandali e avverto di nuovo quello spostamento rarefatto nel mio corpo. Muovo il piede, agito le dita tozze, di certo sono le mie, eppure qualcosa è cambiato, non ricordo di aver mai visto quei sandali. Mi getto la sciarpa sulla spalla ed esco dal parco, sollevando e riflettendo sui miei piedi.
All’improvviso non so più cosa sto cercando. Respiro l’aria primaverile e mi sento rincuorata, rilassata come non ero da tempo. Tutto ciò che incontro sul cammino genera in me un allegro stupore; le erbacce sul pavé, il rumore delle posate sui piatti che arriva da una finestra aperta. Il respiro come un filo che passa dal naso. Mentre procedo a zonzo scopro un vicolo in cui non mi ero mai addentrata e vedo il campanile da una prospettiva sconosciuta. Entro in una panetteria e la commessa mi saluta come se mi conoscesse. Non ricordo di averla mai vista prima. Non parlo quasi con nessuno dall’inizio della pandemia e la sua confidenza mi colpisce.
Questa mattina mi alzo tardi e mi siedo per un attimo tra le piante e i libri sul davanzale della finestra. Osservo la luce del sole sui muri stuccati dall’altro lato della strada, un lenzuolo che sventola leggermente appeso a una finestra. Poi srotolo il tappetino e mi metto in adho mukha svanasana per svegliarmi.
Mentre prendo la posta dalla cassetta delle lettere, il vicino esce di casa.
La settimana scorsa ti hanno cercata, dice.
Chi?
Lui scrolla le spalle.
Una donna, molto magra, capelli corti. Diceva che eri la sua insegnante.
Che strano, rispondo, e per un breve istante mi sento perdere l’equilibrio. Come se qualcuno avesse tirato una corda. Scosto i capelli dal viso, prendo l’elastico dal polso e li raccolgo in alto. Quindi mi tiro la mascherina sul naso ed esco a camminare, le suole dei sandali che battono sulle pietre.