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Maria Gaia Belli

Published in edition #2 2019-2023

Tornando a casa

Written in IT by Fabrizio Allione

Mentre rientrano in macchina, lasciando la città, lui tenta di sdrammatizzare dicendo che è stata una di quelle situazioni impossibili che chiama Tu-cosa-faresti-se?

Lei annuisce. «Queste situazioni non sono il tuo forte», commenta.

«Cosa vuoi dire? Più di così, non so che cazzo avrei dovuto fare.»

«Non dire parolacce, ripete tutto quello che dici.»

Anna dà una scorsa alle sue spalle. Marco è crollato sul seggiolino.

«Vuoi dirmi cos’ho fatto di male?», chiede lui dopo un po’.

«Davide, sei andato fuori di testa. Ti sei messo a fare a botte con il vetro. Se non ci fossi stata io, saresti ancora lì a fracassarti le mani.»


*


Quel pomeriggio erano andati a vedere una casa in centro, decisi a prendere un monolocale. Da anni ascoltavano i loro amici parlare di investimenti, progetti, futuro: tutti quei discorsi che, a un certo punto, le famiglie mature cominciano a fare. Li vedevano andare in banca e ottenere finanziamenti, chiedere aumenti di stipendio, trattare alla pari con capi e dirigenti; competenti, sicuri. Così anche loro, probabilmente piccati dal fatto di essere la coppia più longeva, per quanto estranei a quella natura, avevano iniziato a pensarci, soprattutto dopo la nascita di Marco. Avendo ereditato la casa in cui vivono, e non potendo permettersi granché, avevano pensato che quello sarebbe stato il loro miglior investimento: prendere un piccolo monolocale in città, intestarlo a Marco, ristrutturarlo e affittarlo a studenti universitari.

Era la terza volta che vedevano l’appartamento all’angolo di una stretta traversa di corso Vittorio. Rientrava nel budget e non aveva bisogno di troppi lavori. Anna, però, non ne era pienamente convinta. Non certo per la luce, anzi, era addirittura più luminoso di casa loro; nemmeno per lo spazio, più che sufficiente per quel che a loro serviva; tanto meno per la posizione, visto che il quartiere le piaceva. Era finita, allora, per attaccarsi a scuse stupide, che faceva fatica a difendere.

«A quel prezzo, non troveremo niente di meglio.»

«Certo», aveva replicato lei. «In quelle condizioni.»

«Smettila con questa storia della moquette.»

«Tu non sai cosa ci troveremo, quando la toglieremo.»

Alla fine Anna si era arresa e, quello stesso pomeriggio, avevano firmato la proposta d’acquisto.


*


«Prendere la metro è stata un’idea tua», continua lui in macchina.

«Stai scherzando, vero?», Anna scuote la testa, infastidita. Poi assume quella posa teatrale che Davide conosce benissimo. «Stai dando la colpa a me?»

«Non è quello che ho detto, non provarci. Però non venirmi a dire cosa avrei dovuto fare io.»

«Era con te, lo tenevi per mano.»

«Non lo tenevo per mano!»

«Era con te, sì o no?»

Davide si volta e guarda Anna negli occhi: solo guardarla. Un gesto naturale, non vuole fare da sfondo a nient’altro. Riannoda la sequenza nella sua testa. È ancora troppo confuso. Ricorda la mano di Marco aggrappata ai suoi pantaloni, lei con le borse che chatta al cellulare. Le porte si chiudono, si volta e Marco non c’è più.

«Anna: stava partendo la metro, dovevo tenermi. E poi Marco non ha mai fatto una cosa del genere, non me l’aspettavo.»

«Davide, ha tre anni! Poteva finire sotto una macchina. Potevano rapirlo.»

*

Qualche mese prima, ma poteva essere di più, Anna era capitata per caso in un negozio di mobili orientali. Era stata attirata da una libreria bassa, dai colori brillanti, esposta in vetrina, perfetta per la camera di Marco. Una volta dentro, la sua attenzione era stata rapita da una ciotola avvolta da quella che, d’acchito, credeva una ragnatela d’oro; in realtà, un vecchio coccio rotto, riparato con la tecnica del kintsugi.

L’aveva presa e se l’era rigirata in mano a lungo. Aveva esplorato con i polpastrelli il metallo levigato, la curiosa, ondivaga disposizione delle fratture; aveva immaginato il momento della rottura: un gesto distratto, probabilmente. Si chiedeva se quelle suture non impedissero a qualcos’altro, magari di più necessario, di passare attraverso le crepe. Percepiva nell’oro un movimento, quasi fosse vivo. Ebbe la sensazione che dentro la ciotola, sotto la sua pelle, stesse divampando una forma splendente di micosi, non meno pericolosa di altre.


*


«Ho capito», riprende lui sarcastico, approfittando di un semaforo rosso. «Vuoi un applauso perché sei stata tu a ritrovarlo, non è così?»

«È una gara, per te? Questo significa per te essere genitori?»

«Pensa, non solo potrai raccontare che abbiamo rischiato di perdere nostro figlio perché tuo marito è un coglione, ma che è pure merito tuo se l’abbiamo ritrovato.»

«A me basta che sia vivo, che stia bene.»

«Super-mamma-Anna.»

«Non fare il bambino. Pensa a guidare.»

Davide rallenta, un furgone sta svoltando davanti a loro. Controlla nello specchietto retrovisore e lo sorpassa. Le code dei cavalli, che sbucano dalle sbarre posteriori del furgone, sfilano rapide al loro fianco.

«Poi, a dirla tutta, sei stata tu a non volergli comprare quella macchina. Se gliela avessimo comprata, lui non sarebbe scappato.»

«Davide, ne abbiamo già parlato: non puoi comprare il suo amore.»

«Non l’ho mai fatto. Lo so che non ne ho bisogno.»

«No, non lo sai, perché non è quello che ti hanno insegnato.»


*


Lei e Davide si erano conosciuti diciassette anni prima. A breve, sarebbe stato più il tempo che avevano vissuto insieme che quello da soli. Possedevano quasi tutto dell’altro: pensieri, segreti, traumi, desideri, paure. Avevano appurato, l’avevano scoperto insieme, seppur senza dirselo, che anche solo due o tre cose che non funzionano pesano più di qualsiasi altra che, invece, appare perfetta.

Succede, a volte, di scambiare la sicurezza, la quotidianità di un amore con un sottile, quasi trasparente, controllo simbiotico dell’altro.


*


Prima di uscire dall’autostrada, passano dall’autogrill a prendere la pizza. Mentre Anna attende Davide in macchina, nota dall’altro lato del parcheggio  un gruppo di ragazzi seduti attorno ai loro scooter.  Bevono, fumano. Riprendono coi loro telefonini un cucciolo di cane che insegue una bottiglia di birra vuota. Il rumore della bottiglia che rotola la raggiunge nell’abitacolo come un pigolio lamentoso. Si confonde con la musica del video stupidissimo che Marco sta guardando sul suo cellulare mentre è seduto in braccio a lei. Il loro calore, che lentamente si posa sul vetro, sbiadisce i ragazzi in forme grezze. Sullo schermo del finestrino appannato non restano che le lucciole fioche delle loro sigarette accese.

Anna passa una mano sul vetro, preoccupata per il cane.

Un ragazzo dà un calcio un po’ troppo forte alla bottiglia. Batte contro il palo che sorregge il cesto dell’immondizia e si spacca in mille pezzi. Il cucciolo si spaventa e guaisce.

Anna strozza un verso in gola e dà un pugno alla portiera. «Piccoli stronzi.»

«Stronzi?», le fa il verso Marco.

Lei capisce di aver parlato a voce troppo alta. «Senti, tesoro, mi prometti che non scappi più?», tenta di sviare.

Marco continua a farsi ipnotizzare dal video demenziale di un tizio che imbocca dinosauri.

«Oggi, quando sei scappato dalla metro. Non lo fai più, vero?», insiste Anna.

«Volevo solo vedere la macchina.»

«La vuoi proprio così tanto?»

«Sì. Tanto.»

«Allora mamma te la compra.»

Marco alza il viso dallo schermo e mima un sorriso esagerato, da fumetto. «Sei molto gentile, mamma.»

Lei ride. Affonda il viso tra i capelli del figlio; li annusa. «Ma non dirlo a papi, deve rimanere un segreto tra di noi.»

Quando ripartono e percorrono l’ultimo tratto di strada verso casa, il vapore che si alza dai cartoni delle pizze che Anna tiene sulle gambe trasforma i vetri dell’auto in pareti lattiginose.


*


«A te va bene continuare così?»

Davide, come se stesse cercando di catturare un insetto fastidioso vicino all’orecchio, le afferra il polso; poi allunga la gamba e con il piede arpiona il cartone aperto della pizza buttato a terra. Prende uno dei pezzi che hanno avanzato. Sui bordi, i segni di qualche assaggio distratto. La crosta della pizza fredda è così stoppacciosa che a Davide sembra di staccare a morsi i tendini da una costina di maiale. Le sue mascelle fanno il rumore di un carro armato che avanza coi cingoli rotti.

«È andato tutto bene, no?», replica, non appena trangugia il boccone.

Lei sente le lacrime salire ma non hanno la forza di vincere la rabbia che le trattiene.

«Non c’entra un cazzo quello che è successo oggi, Davide.»

Lui molla il suo polso e si alza. Si guarda le gambe, i piedi nudi. È solo leggermente stordito dalle birre, qualcuna di troppo. Si avvicina al frigorifero facendo attenzione a non calpestare i giocattoli abbandonati sul pavimento. Inciampa nella testa staccata di Buzz Lightyear. Ci sono alcune posate, i calzini di Marco sporchi di gelato.

Davide apre il frigo senza sapere cosa sta cercando. Vede le zucchine avvizzite, un barattolo di sugo vecchio con una pellicola di muffa sulla superficie, il contenitore arancione con l’arrosto che sua mamma aveva preparato per Marco. Prende il cartoccio del latte, lo scuote. Lo apre e annusa: si può ancora bere.

Mentre si dirige verso il divano, passa accanto ad Anna. Lei siede ancora a terra, con le gambe distese. «Non possiamo essere felici così?», le chiede.

La suoneria del cellulare di Davide fa scattare i loro corpi come lepri sorprese da fari accesi nell’oscurità. Lui cammina sulle corna di un triceratopo e perde l'equilibrio. Si versa il latte addosso. Sente il liquido scendere lungo le gambe, inzuppare le mutande.

Alza gli occhi su di lei. La vede ridere.


*


Quando si sveglia, è notte piena. È circondata da un silenzio sfinito. In bocca, l’alito impastato. Vorrebbe lavarsi i denti per togliere quella patina dolciastra che gli ricopre la lingua, ma non ne ha le forze.

Cerca sul comodino il cellulare per guardare l’ora. Non lo trova. Forse l’ha dimenticato in cucina, o in bagno, non è sicura. Sente la coscia umida. Tasta le lenzuola, poi subito dopo il pigiama di Marco, addormentato in mezzo a lei e Davide. Si è fatto di nuovo la pipì addosso. Ricorda di aver chiesto a Davide, prima che andassero a letto, di mettergli il pannolino, soltanto per dormire. Negli ultimi mesi, da quando hanno terminato lo spannolinamento, è diventato un fenomeno ricorrente. Si è convinta, pur senza averlo condiviso con nessuno, che quelle enuresi notturne siano la conferma che Marco ha compreso qualcosa che loro ignorano ancora, e che lui non ha altro modo di esprimere.

Viene distratta dal rumore di una motocicletta che sfreccia impazzita nella campagna narcotizzata. Si chiede chi possa avere tanta fretta a quell’ora, in paese.

Poi si alza delicatamente, attenta a non svegliare nessuno. Davide dorme prono, con la faccia rivolta alla porta.

Anna esce dalla stanza, raggiunge la sala e attraversa i resti della giornata ancora sparsi a terra. Non trova il suo cellulare ma, rovesciato sul divano, quello di Davide. Lo solleva per controllare l’ora e vede sul display un pop-up, un breve messaggio. È l’agente immobiliare: Offerta accettata. Congratulazioni! Seguito dall’emoticon di uno spumante. Non appena finisce di leggere, incapace di dire che cosa stia provando, le tornano alle mente le mani del vecchio proprietario del monolocale: cerotti sulle nocche, la pelle sulle falangi squamata e rossiccia, poi quel ditale, silicone o altro, attorno al pollice. Quando se la prendeva con la moquette, forse non esagerava. Chissà cosa si annida lì sotto, pensa.

Appoggia il cellulare sul braccio del divano e si distende. Continua a non avere sonno. Per quanto ne abbiano parlato, lo sa, è ancora lì, sulla metropolitana. Freezata, come direbbe la sua psicoterapeuta. Ripercorre, nella memoria, la sequenza: un attimo prima, Marco è aggrappato ai pantaloni di Davide, entrambi in piedi al centro della carrozza; l’attimo dopo, quando lei alza il mento dal cellulare, Marco è fuori dalle porte ormai chiuse che corre da solo verso le scale mobili, mentre loro, intanto, vengono trascinati via dalla metropolitana in partenza. Poi Davide che si lancia contro la porta e la prende a calci e pugni; il resto della carrozza e quel terrore che, all'improvviso, li avvicina tutti.

Prova di nuovo, al ricordo, una stretta, uno strappo. Più lacerante ancora è altro, ma se ne vergogna: tenta invano di sopprimere quel senso di libertà che aveva provato nel sentirsi portare alla deriva.

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