View Colofon
- "Streszczenie" translated to PL by Mateusz Kłodecki,
- "Sinopse" translated to PT by Vasco Gato,
- "Sinopsis" translated to ES by Inés Sánchez Mesonero,
- "Rezumat" translated to RO by Elena Damaschin,
- "Sinopsis" translated to SR by Ana Popović,
- "Synopsis" translated to NL by Sandra Verhulst,
- "Synopse" translated to CZ by Monika Štefková,
Maria Gaia Belli
Sinossi
Il racconto che ho iniziato a scrivere potrebbe diventare sia il brano di un’antologia di racconti brevi - incentrati su diversi personaggi collegati tra loro - oppure il frammento di un young-adult.
Siamo nel futuro prossimo e all’interno in una chat di genitori apprensivi scoppiano allarmismi e scandali, fluendo a catena in una ristretta comunità, apparentemente attenta e giusta, ma in realtà livida di invidie e individualismi. Emerge forte - mentre si snodano schermaglie, menzogne, pose e affermazioni di piccoli poteri meschini – la totale incomprensione della vita emotiva dei figli da parte dei genitori, nonché il clamoroso fallimento del tentativo di salvarli, perché tutto quel controllo sfocia esattamente nella perdita della fiducia reciproca, e nel logoramento del legame con loro.
Il tutto è ambientato in un mondo futuro dove questi bambini, per godere delle libertà di una volta, si rifugiano in mondi virtuali creativi o combattivi, molto più reali dei videogiochi di oggi, e di cui gli adulti non capiscono nulla.
Estratto
Edna entrò in bagno col pad avvolto nell’asciugamano, si bagnò sommariamente la testa senza insaponare, poi lasciò l’acqua accesa, sistemò gli elettrodi in testa, e si sedette a bordo vasca a chattare. Goccioline cadevano sul pad impermeabile.
C’era un messaggio di Orlando: Domani c’è la festa di Lea dalla parrucchiera. Tu vai?
Da qualche anno a quella parte, i maschi erano invitati anche alle feste dove ci si metteva lo smalto, per evitare stereotipi di genere.
Non so, ho un merdoso casting. Ti mostro una cosa.
Edna srotolò gli elettrodi fucsia che erano pluggati nel pad, li fece aderire alla testa e scaricò i suoi sogni di quella notte direttamente su Starcraft. Salvò il sogno sul pianeta Sonno. Se lo riguardò: la sua casa si trovava in cima al mondo, e dalle finestre erano visibili generici monumenti antichi, sotto forma di rovine piantate nel nulla. Allora lei usciva, e attraversava diversi paesaggi simili ai livelli di un videogame, fino a ritrovarsi nella sua vera casa. A quel punto andava sul terrazzo, e una mano invisibile la impugnava e la portava al cielo. Non c’erano rumori, ma la sua coscienza sentiva che un dio la stava scannerizzando, ed era contento di quel che vedeva, così le trasmise un senso di pace, dentro un silenzio ronzante, e poi la ripose sul terreno. Qui il video si interrompeva.
Edna condivise il sogno con Orlando. Lui lo guardò a doppia velocità e commentò solo, con una certa povertà di linguaggio: fico. E poi: mi presti la tua lama stellare anti-nebbia cosmica?
Sì, ti aspetto su Stella Nana.
Edna impostò gli elettrodi da “in uscita” a “in entrata”, chiuse gli occhi e si preparò all’altra dimensione.
Gli avatar dei bambini comparvero, prima Or, poi Ed, su un pianeta blu e caldo, avvolti in guaine termoresistenti. Lei alzò il braccio per aprire una tendina impalpabile, cliccò col dito sull’elmetto che lui le aveva prestato nel pomeriggio e lo indossò. Sapevano che faceva caldo ma non potevano sentirlo davvero sulla pelle, perché non avevano attivato la modalità “temperatura”.
Costruiamo una casa.
Okay.
Scelsero, sempre dal menù a tendina, che si srotolava a mano, dei mattoni che erano cubi trasparenti pieni d’acqua e pesciolini, e altri mattoni di gelatina verde. Iniziarono a costruire terrazze, terrazze incastrate una sull’altra, che si affacciavano su una landa desertica e azzurra. Spostavano i blocchi da costruzione con la punta delle dita, li avvertivano come tridimensionali ma non sentivano il loro peso, e tuttavia vedevano goccioline di sudore formarsi sulle mani nude. Tutti i loro pianeti avevano diverse atmosfere: si chiamavano mattosfera, porcosfera, sfigosfera, scrotosfera.
Quando il piccolo palazzo scoperchiato fu finito, aggiunsero degli animali che sembravano cani con la proboscide, che una volta Orlando aveva sognato e scaricato dal suo cervello, e delle piante viola e argentate che avevano preso dal cloud dei Sogni Comuni.
Ed e Or non giocavano mai in modalità sopravvivenza ma sempre creativa, perché non volevano che arrivassero mostri o calamità naturali a ucciderli o a devastare i pianeti: c’era già il controllo periodico dei loro genitori, che si connettevano ai loro dispositivi per impostare blocchi, controllare cronologie, scaricare le chat e girovagare nei mondi. Se avessero scoperto quelle piante, le avrebbero analizzate con l’aiuto dello psicologo. Se avessero scoperto con quali compagni di classe loro si incontravano in quei mondi, ne avrebbero scritto sul Registro Elettronico Emotivo e parlato sulle chat e con gli specialisti. In occasione di quei controlli, i bambini salvavano tutti i ricordi, i sogni e i luoghi inventati sulla scheda di memoria di un amico, cercando di lasciare sul pad soltanto qualche casupola scarna, per depistarli.
Gli avatar Ed e Or avevano fame. Aprirono un portale per un altro sistema solare, dove tenevano le loro riserve di cereali astrali. Attivarono simultaneamente la modalità papille. Si preparavano a sentire in bocca quel saporino di wurstel di seitan misto gelato alla cannella tipica delle preparazioni inventate da due bambini ricchi mischiando i loro gusti domati dall’educazione. Sotto i denti, la sensazione era quella del polistirolo, o piuttosto dei mattoncini da costruzione in mais.
Vista da fuori, adesso, Edna, seduta sul bordo della vasca, con il pad poggiato in grembo, gli elettrodi fluo sulle tempie, gli occhi chiusi, i capelli fradici a metà, muoveva le braccia per acchiappare e versare i cereali in una tazza invisibile. In quel momento, la madre bussò alla porta. Una, due volte. Edna aveva troppa voglia di mangiare quella roba che non era scritta nel Piano Dietetico e che non l’avrebbe fatta ingrassare, né inquinare, né avere crisi allergiche. Improvvisamente, percepì quei colpi lontani che si sommavano al sordo rumore - come di un continuo sfrecciare di schegge di polvere a velocità supersonica contro l’aria - dell’universo.
Mia madre!, urlò facendo cadere la tazza, che cadde lentamente perché la massa del pianeta blu rendeva tutto molto leggero. Cadendo, fece un rumore metallico come di ghiaccio infranto. Edna srotolò la tendina con le due braccia sottili, selezionò Esci, Conferma, quindi riprese contatto col suo vero corpo sgranchendo la mano, si strappò gli auricolari, coprì il pad con della biancheria sporca e accese il fon. Sua mamma urlava. Edna, Edna, tutto bene! Tutto bene! Tutto bene!
Sembrava un’esclamazione, più che una domanda.
Edna si guardò allo specchio, mentre l’acqua le rigava il viso. Su Starcraft era più bella, senza il neo blu accanto al labbro.
Quel tuttobene tuttobene continuava fuori dalla porta come un rumore cosmico. Edna provò il sorriso per la pubblicità delle famiglie omogenitoriali. Aveva i denti giallini, e aveva voglia di cereali astrali.