Lui pensa che il mondo sia fatto di linee. Non sono parallele, non gli importa dove vanno a incontrarsi. Conta lo spazio che le allontana, ciò che lo riempie, cosa nasce e cosa muore nel tempo che le trattiene, immutate e immaginarie, nella solitudine di chi le osserva.
È una linea l’orizzonte che divide il cielo dal golfo di Sant’Eufemia. Spesso, se il tramonto è pulito, lo Stromboli sembra più vicino. Appare come una piramide quasi nera, dalla cima nasce un grigio sbuffo che Ortensio distingue a fatica. È una linea quella formata dai sassi che a riva anticipano il bagnasciuga. Restano aridi, non sono toccati dalla schiuma della marea, non sono attraenti agli occhi di chi li raccoglie. Lo sono, invece, i sassi sollevati dal fondale. Ortensio pensa che il fondale, per i sassi, sia il miglior posto dove stare.
Poi c’è la spiaggia grande come il deserto. Una lunga fila di tavole in pietra, sistemate a coppie, l’attraversa.
La taglia in due come un ricamo irregolare su un lenzuolo. È lì che Ortensio cammina verso il mare. Si ferma a metà strada, lo fa tutte le mattine. È un nonno magro, la pelle tirata dal sole, il bianco dei ca pelli in forte contrasto con l’abbronzatura. Tiene la canottiera infilata nei bermuda, con una cinta di pelle dalla fibbia arrugginita. Tutte le tasche sono scucite, ma non quella posteriore, dove tiene il portafoglio. Dentro, pochi euro e una fotografia: il figlio, la nuora e il nipote sono in posa, seduti sulla staccionata di una baita di montagna. Li circonda la neve, sorri dono tutti.
La tosse è tutto ciò che lo insegue dell’aver smesso di fumare. Deve fermarsi. Gli è rimasto, nelle narici, quell’odore che s’impregna nelle case quando i fumatori se ne vanno, si aprono le finestre, si cerca una corrente che si porti via il sentore. Ortensio chiude gli occhi e inspira quanto può. Quando li riapre si gira e osserva le altre linee che chiudono lo spazio della
sua vita.
È bianca e tratteggiata quella divisoria della Statale 18. Dal punto in cui si trova, Ortensio non può vedere l’asfalto. La strada è rialzata, e per avere accesso alla spiaggia si passa sotto la Statale, in un tunnel quadrato lungo una decina di metri, dove un uomo alto, aprendo le braccia come ali, può toccarne le pareti con la punta delle dita.
Oltre la Statale, dove su entrambi i guard rail mazzetti di fiori appas siti restano nei loro vasi, c’è il Residence dove Ortensio vive. Il Residence si riempie a giugno inoltrato da chi è abituato a vivere altrove le stagioni che non sono l’estate. Maggio e settembre contengono un tempo che scompare.
Ortensio vive nell’appartamento al terzo e ultimo piano. Da lì può osservare il suo segreto mondo personale e la sua opera prendere forma, colore, grandezza. Lo fa tutti i giorni, guarda. Ammira dal balcone la vastità della spiaggia, si immagina anche di camminare sul sentiero di tavole in pietra verso il mare, proprio lì, dov’è adesso. Immagina di fermarsi a metà strada lì, in quel luogo piccolo diventato un prato, poi un arcipelago di piccole piante fiorite che nulla hanno a che vedere con quelle secche che coprono le dune. Oggi, infine, vede alberi che danno ombra nel deserto.
Ortensio va a controllare da vicino le cortecce delle sue creature, po trebbe chiamarle per nome se solo gliene avesse dato uno. La foglia più alta del primo albero, che ha piantato anni prima, oggi raggiunge i quattro metri. Quando si copre gli occhi per osservarla, Ortensio si chiede cosa può aver provato il primo uomo che ha acceso un fuoco. Un pensiero che col lega a uno dei suoi due sogni ricorrenti: lui è al centro del suo piccolo bosco sulla spiaggia e questo si accende all’improvviso, le fiamme avvolgono i rami e i tronchi si spezzano, tutto brucia, i palmi delle mani cominciano a liquefarsi, Ortensio si sveglia. La prima cosa che deve fare è aprire la per siana, respirare nuova aria e scacciare dalla mente il fumo rimasto dal sogno.
Il balcone della camera da letto domina il giardino del Residence, dove l’irrigatore automatico innaffia l’erba e bagna un’altalena arrugginita e un lungo tavolo in pietra lavica.
A ovest, la linea divisoria, il sentiero di tavole in pietra che s’infila nell’isola verde delle sue creature, la riva dei sassi, l’orizzonte. Lo Stromboli, forse. Tutto rimane al suo posto.
A est, le ultime linee.
La ferrovia, immediatamente alle spalle del Residence. Poi, alzando lo sguardo, sospesa, c’è la Salerno - Reggio Calabria, una vena sottile, tra gli ulivi che coprono la collina.
Infine, l’ultima linea. L’orizzonte che divide la piana dal cielo. È lì che cerca di salire Ortensio, verso quello che crede sia l’altro con fine della terra, durante il suo secondo sogno ricorrente: corre verso la cima e inciampa, si rialza e dietro di sé, abbastanza lontana da averne paura, si alza dal golfo un’onda alta chilometri.
È il mare che si riprende tutto, mentre Ortensio urla.
Perdono, chiedo perdono, non chiedo altro.