Capitolo 1
(…) Abitiamo in una casa piccola. Io, Flavia e la paura. Uomini non ne abbiamo. Se ne sono andati tutti. Uno dopo l’altro, li abbiamo messi via come abiti invernali in piena canicola. Ci siamo spogliate di loro. Noi, le donne della nostra famiglia. “Adesso lui se ne dorme tranquillo all’altro mondo, e io nel mio letto!” ha detto la nonna. La mamma di mia mamma. Lei è stata la prima a spogliarsi, in famiglia.
Victoria, si chiamava. Sposata con Marin. Viso affilato, bruno, con una gamba storpia e la mano pesante. È morto una sera, nei pressi alla ferrovia. Era saltato giù dal treno, o era caduto, va a sapere. Quando l’hanno trovato puzzava di vino stantio e aveva i capelli raggrumati di sangue. Nessuno seppe dire cosa ci facesse lui in treno a quell’ora o da dove venisse. Però tutti lo sospettavano. “Ha un’altra, altrimenti non sarebbe sempre in giro” mormorava la gente. La nonna faceva finta che non le importasse. “Vada pure!”, diceva piccata, e alzava gli occhi al cielo, là dove credeva che accadessero tutte le cose. Poi anche per la mamma venne il momento di spogliarsi di papà. Papà aveva mani delicate, da pianista. Così se l’era scelto lei, guardando le mani. E le gambe, che fossero uguali, perché la gente non la chiamasse più “Nina dello Zoppo”, “come mi urlavano dietro i bambini quando passavo per strada”, racconta, e si passa la mano aperta sulla faccia, per togliere ogni traccia che potesse esservi rimasta, chissà come. Un giorno, papà era corso giù per le scale e se n’era andato. Indossava un cappotto invernale, un berretto di pelliccia con i copriorecchie annodati in cima alla testa e una valigia. Pareva afflitto. E forse lo era sempre stato, ma solo allora la cosa si era fatta evidente.
Io ho divorziato da Vlad qualche anno dopo il matrimonio. Lo avevo conosciuto su Strada Ciurea, in pieno giorno. Ero uscita dal Mega con una bustona di arance che aveva ceduto proprio all’ingresso del parchetto, quello dalla parte del vicolo. Improvvisamente liberi, i frutti erano rotolati giù fino a fermarsi nella canaletta. Lo vidi avvicinarsi in fretta, con il sole alle spalle. Era alto, con delle belle mani, mi piaceva sentirmele addosso, anche se il più delle volte ero io a dovergli mostrare dove metterle. “Voialtri di bambini non ne fate, che abbia anch’io il tempo di godermeli?”, ci tormentava mamma. Li facciamo, li facciamo, rispondevo nel pensiero, là dove la felicità della mamma è la più importante di tutte le gioie del mondo e si solleva in onde alte due metri. Nella realtà, invece, le avevo urlato più forte che potevo: che diamine vuoi? Perché ti immischi sempre nella mia vita? Non ci hai mai pensato che magari i bambini nemmeno mi piacciono?
Quel giorno l’ho fatta piangere, la mamma, e la sera ho detto a Vlad che volevo un figlio, lui mi ha sorriso e si è abbassato le mutande. Quando ho scoperto di essere incinta ho pianto anch’io. Credo di gioia, anche se non saprei dirlo con certezza. Ma ho pianto. E ho scritto su Facebook, a lettere cubitali, su uno sfondo rosa da bambina: Dora + Vlad = sorpresa! Like, like, like, like e via dicendo.
Su Facebook è sempre estate e la gente sembra stare sempre in spiaggia, con gli occhi posati su interminabili distese d’acqua. E l’acqua è calma, non ci sono onde. Sono rimasta senza sigarette, quindi devo uscire di casa.
Stai via tanto? mi interroga Flavia.
Non so, le rispondo e chiudo la porta con due giri di chiave.
Probabilmente non vedeva l’ora che uscissi, per non vedermi più, per potersi togliere quei suoi anfibi pesanti, buoni solo per prendere a calci quando ha paura, per restare finalmente sola, a piedi nudi e con la musica a tutto volume.
Giunta in strada decido di fare un giro per il quartiere, non solo attorno al mio palazzo, dove non c’è più niente di nuovo da vedere, ma più in là, verso lo stadio, dove andavo a passeggiare tanto tempo fa, con la bambina ancora nel passeggino. Ho un vestitino giallo con le maniche a tre quarti e mi faccio un selfie all’ingresso del parco. Nemmeno un quarto d’ora dopo mi ritrovo due richieste di amicizia da parte di due soldati delle forze NATO. I nostri, invece, non hanno alcuna reazione.
Mi ricordo che i primi mesi dopo il parto prendevo il passeggino e vagabondavo per queste stradine, all’inizio con gli occhi incollati alla bambina addormentata, osservandone i risvegli, i sorrisi, lo sguardo slavato e assonnato, e poi, man mano che abbiamo iniziato ad abituarci l’una all’altra, ho spostato lo sguardo sulle file di case tutte uguali, a due piani, con le pareti spesse, appiccicate l’una all’altra, alcune con gatti sonnacchiosi sugli usci, altre con ciliegi e grassi cespugli di ortensie, tutte con almeno qualche metro quadrato d’erba, quanto basta per stare un po’ fuori, prendere una boccata d’aria o fumarsi una sigaretta. Man mano che mi addentro nel cuore del quartiere, lasciandomi il parco sulla destra e procedendo in direzione della via principale, dove passano i filobus, che divide in due questa zona della città, mi sembra sempre più che la mia non sia un’incursione nello spazio, ma nel tempo. Quando Flavia era molto piccola, questa ragnatela di stradine era divenuta il mio mondo. L’unico in cui mi muovevo da padrona.
L’ora di pranzo è passata da un pezzo, il sole ha preso forza e la luce, disuguale, si riflette sui marciapiedi, tracciando dei cerchi. Così come lo sento, deserto e riscaldato dalla primavera, il quartiere si apre come un’arancia in viali, piazzette e giardini dai quali i ricordi straripano quasi con furia. D’un tratto, tutti gli anni che credevo perduti, quelli di cui parlavo alla mamma dicendole “Ho sbattuto le palpebre due volte e non so dove siano finiti”, sono lì, davanti ai miei occhi.
Man mano che procedo, in qualche modo le immagini si sollevano da terra e riempiono le strade ora della risata di Flavia, ora del rumore del monopattino o di quello delle ruote del suo passeggino per le bambole, senza il quale non voleva mai uscire di casa. Via via che il bambino cresce, le strade percorse dalla madre dovrebbero farsi a loro volta più numerose e più ampie, così, per fare spazio a nuovi ricordi, che verrebbero a posarsi come neve sopra gli altri, i primi, di quando nulla di tutto quel che c’era attorno contava più e la vita stessa tratteneva il respiro, per non svegliare la bambina nel passeggino. Arrivo al Mega, le porte si aprono schioccando come una vongola, alla cassa c’è Geta, la vicina con i capelli rossi e i seni prosperosi, le sorrido, mi sorride, le do i soldi, un pacchetto di Kent, le dico, mi dà il pacchetto, mi dà il resto, “Che bel vestito che hai!”, dice, “Oh, ce l’ho da una vita!”, rispondo, mi ricordo dei due soldati, e, pensando a loro, esco dal negozio, cerco l’accendino e mi accendo una sigaretta.
Il fumo mi dà alla testa e intorpidisce qualcosa che ora fa un po’ meno male. Non saprei nemmeno dire cos’è che fa male, so solo che si sente come un peso, come una borsa con i manici quasi rotti che sono obbligata a trascinarmi appresso. Un arsenale da battaglia, ecco cosa sembra.
Torno verso casa. Per strada – due cespugli di forsizia, un gatto spelacchiato, una signora che vende aglio orsino, tre auto, una con il parabrezza incrinato, un palazzone, un altro palazzone, una cancellata pitturata di fresco sulla quale una cornacchia saltella goffamente. Rabbrividisco, come per un brutto pensiero. Gli uccelli non mi piacciono, non mi piace il loro sguardo obliquo, da matti, gli occhi vetrosi ai lati della testa, ho paura del becco e degli artigli fatti apposta per ghermire, per strappare, per dilaniare, per ferire. Quando penso agli uccelli vedo il sangue. Finisco la sigaretta. Fumo un po’ troppo. Se riuscissi a smettere mi sentirei certamente migliore, più orgogliosa di me stessa, ma anche più sola. La solitudine ha un gusto aspro, di vomito e puzza di pesce.
Era aprile, Mircea mi aveva lasciata, e la mamma aveva comprato le uova di pesce. La guardavo mentre se ne stava di fronte al frigorifero spalancato e sorrideva come se stesse guardando dentro un armadio pieno di vestiti. Le urlavo contro tra me e me, senza voce, e speravo che il filo invisibile che lega le figlie alle madri cominciasse a vibrarle dentro, facendola voltare verso di me, pronta ad abbracciarmi, a farmi le carezze e a dirmi che tutto sarebbe passato. Urlavo in silenzio, mordendomi le labbra e torcendomi le mani, mentre lei sistemava la spesa e pianificava la cena di quella sera. Avrei voluto urlarle che si sentiva il vuoto, e che il vuoto bruciava e mi faceva male, ma la mamma non credeva a questo genere di dolore. “Se hai male prendi del paracetamolo”, era solita dire. Quel giorno mi ero chiusa alle spalle la porta della cucina, ero andata in bagno e ne avevo ingurgitata una scatola intera.
Avevo diciotto anni già compiuti, quindi l’ambulanza mi ha portata in un ospedale per adulti. La prima notte ho pianto e vomitato tutto il tempo.
Mi accendo un’altra sigaretta. Mi ci aggrappo come a una promessa. Andrà tutto bene. Mentre aspiro il fumo nel petto penso che le cose non possono rimanere così come sono, immobili, senza che succeda qualcosa di davvero importante. Non si può vivere una vita in cui non succede nulla che meriti di essere raccontato. In realtà è possibile, ma chi è che vuole una vita del genere? È per questo che ci creiamo gli account sui social. Finché raccontiamo di noi stessi, le cose sembrano migliori. Anche quelle brutte non sembrano poi tanto male. Non ho idea di come abbia fatto mia madre a cavarsela senza internet. Aveva delle vicine, e, all’epoca, la felicità era più piccola e non contava poi così tanto. Contava altro: il cibo. La mamma si stracciava le vesti su e giù per il condominio per una tazza di zucchero o di olio, e già che c’era rovesciava lì, nelle cucine degli altri, anche il suo sacco di merda. Mentre lei era dai vicini, papà sonnecchiava sul divano. Quando mi sono sposata mamma ha dato a me il divano. Lei se ne è comprato uno nuovo. “Uno piccolino, verde, che mi lasci spazio per girarci attorno”. Nemmeno sapevo che le piacesse il verde.
Ogni volta che parla di sé stessa, mamma parla al passato. Lei, quella di ora, o lei, quella che sarà, non esiste. Mamma è stata sé stessa soltanto prima di essere madre e nonna. Trascorre le serate sul suo divano nuovo, con gli occhi fissi sul televisore. Durante la pandemia le ho regalato un abbonamento a Netflix. Gliel’ho preso per il suo compleanno. “Cosa vuoi che ti compri?”, le ho chiesto. “Quello che vuoi tu”, mi ha risposto annoiata. Se ne sta per ore e ore a guardare film e mi racconta che si immagina di guardarli insieme me.
“Passa a trovarmi ogni tanto”, mi prega. Quando salgo le scale del condominio, rivedo papà scenderle di corsa, con la mamma che gli corre dietro in vestaglia e ciabatte. L’ho detto anche a lei, ma si è limitata a fare un gesto di disgusto con la mano e a dirmi che non ha senso dissotterrare i morti. Ma papà non è morto. Ci ha soltanto abbandonate e si è risposato con Loredana, detta Lori.
Capitolo 2
Da quando c’è stata la pandemia sono aumentate anche le richieste di amicizia su Facebook. Soprattutto da parte di uomini. Si saranno spaventati, si spaventano facilmente, loro. Non le accetto mai così, tanto per. Prima guardo le foto, che studi hanno fatto, i loro amici, controllo di averne almeno qualcuno in comune, è una cosa che mi rassicura. Come alle feste del liceo, quando avevo bisogno di sapere chi ci sarebbe stato prima di decidere se andare o no. È così che ho conosciuto Toma. Ha scritto che abita a Brașov e che ha studiato Medicina, e il fatto che il suo lavoro sia quello di sconfiggere la morte lo rende sexy, come ogni maschio pronto a dare battaglia. Sulla foto di profilo ha una camicia azzurra e sorride, sicuro di sé. Abbiamo solo due amici in comune, ma trattandosi di un medico ho fatto un’eccezione e ho accettato l’amicizia. Solo che adesso lui se ne sta zitto e io pure, perché non abbiamo idea di che altro potremmo dirci, e può darsi che non ci diremo proprio niente.
Alla TV passa la pubblicità di non so che banca e una ragazza giovane, con addosso un vestito bianco, va in bicicletta mentre tutti si girano a guardarla. Sembra uscita da un musical e mi aspetto che inizi a cantare qualcosa. E invece no. La storia si chiude con l’immagine di un impiegato che le stringe la mano e una voce fuori campo che dice qualcosa a proposito di mutui. “Ascolta me, Dora, quando ti sposerai, assicurati che lui abbia un posto di lavoro sicuro, una casa, anche solo un monolocale, ma comunque due camere sono meglio, così il bambino ha la sua stanza”.
La voce della mamma si infiltra dappertutto, riempie ogni crepa della mia mente, arriva fin là dove nient’altro trova posto. La sento continuamente. Quando la mamma non ci sarà più, la sua voce rimarrà a me, e io inizierò a parlare come lei, in attesa che Flavia cresca e io scompaia, lasciandola a lei.
L’inverno in cui nonna Victoria è morta, caduta in cortile, in ginocchio, con le dita aggrappate alla rete di fil di ferro e i capelli bianchi scappati da sotto i fazzoletto che aveva in testa, ha lasciato la sua voce a mia madre. È così che noi, le donne, viviamo in eterno. Gli uomini lasciano il cognome (…).