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22 dicembre 2014, Diario de Vida
La natura spettrale di Plaza de España consisteva nel suo rispecchiare la magnificenza di una civiltà precedente, che nell’epoca moderna non aveva più senso.
Che se ne fa la forza colonizzatrice di una piazza così importante, pomposamente suddivisa nelle province spagnole, pensata per celebrare tempi passati? Le carrozze giravano attorno alla fontana, offrendo ai turisti di giocare alla nobiltà per pochi soldi. Bene, almeno qui non ci sono segway. Un cavallo sfruttò la distrazione del cocchiere, si liberò dal giogo e corse al galoppo verso la propria ritrovata libertà. Lasciandosi alle spalle la confusione, i clic delle macchine fotografiche che cercavano di catturare quella scena e l’arcobaleno creato dal sole nella fontana al centro della piazza, corse verso il Parco di Maria Luisa. Questa “Disneyland” per adulti era placida e idilliaca in maniera surreale. Passò vicino a un enorme albero di Ficus macrophylla che era uscito dall’illustrazione fantasmagorica di una fiaba per bambini e si era sistemato nel parco tra le palme e gli altri vegetali, sviluppando le sue radici monumentali sottoterra come fossero dei rami al contrario. Un piccione spiccò il volo dall’albero, passò sopra alla fontana in stile mudejar e si diresse verso la folla che si era radunata attorno all’isolotto con le anatre e i cigni. Dopo essersi posato a terra, ammiccò a un suo compagno, che poi volò via, descrisse un grande cerchio attorno alle teste di due curiosi e, scortato dall’attenzione della coppia, si accomodò teatralmente sull’albero sopra di loro. Allora i due notarono che tra quei rami c’era un enorme numero di piccioni bianchi. Attraversarono il ponte, osservarono la scena di quell’universo di anatre e uccelli e proseguirono verso il gazebo rialzato per ammirare il parco dall’alto. Accanto a loro passò una bambina, che si fermò presso la balaustra con la fessura NO8DO, ci guardò attraverso per vedere il paesaggio reticolato del parco e se ne andò. Si fermò, meravigliata, quando vide due bambine che guidavano una specie di veicolo fino allo spiazzo di Plaza de America e urlavano di gioia. Girando in cerchio attorno alla piazza, giunsero allo spettacolo sconvolgente del cavallo che giaceva morto nel Padiglione Mudejar, sereno, poiché aveva trascorso gli ultimi minuti della sua vita da rivoluzionario, da attivista per i diritti equini.
Viktor stava in piedi in Plaza de España, mentre dagli auricolari del suo telefono usciva Volim te kao konja di Zdenka Kovačiček. Per l’indagine aveva creato 24 cartelle di appunti sul diario di Vida e su ciò che aveva scoperto durante le ricerche.
Aveva deciso di rimettere insieme i pezzi del puzzle proprio sulle panchine delle province spagnole, ricoperte di piastrelle con scene suggestive della storia del posto. Aveva costruito un mini-altare per ogni episodio di Vida e si avvicinava a essi con estremo rispetto e contrizione, cercando di capire il linguaggio segreto della ragazza. Era abbastanza fortunato perché questa piazza tirata a lucido, eppure inquietante, non traboccava di visitatori, che si accalcavano nelle viette strette del centro e cercavano di approfittare dei saldi natalizi. Di tanto in tanto, dei poliziotti gli giravano intorno per controllare cosa stesse facendo. Lui, in preda alla diffidenza, li convinceva abilmente di essere demente. Si era ingegnato per non far volare via le cartelle con gli appunti fermandole sulle piastrelle. Aveva preso dall’appartamento tutto ciò che poteva fungere da fermacarte.
Forbici, cover del cellulare, custodia per lo scotch, calcolatrice trovata nell’appartamento, caricatore del telefono, matita, telecomando del condizionatore, arancia, accendigas, schiaccia-aglio, accendino, hard disk esterno, guida dell’Andalusia, libro Il pellegrinaggio di Arsenij Njegovan, scatola di aspirine, registratore (rotto), azulejo portasapone, calamita da frigorifero (un arabesco col nome di Granada), chiavi della casa di Belgrado, piccolo portaincenso di ceramica, barretta Ritter Sport fondente con nocciole intere, USB, rossetto e specchietto.
Gli era indispensabile dividere quella realtà in frammenti per vederla così come era descritta, apparentemente scollegata e caotica, ma in realtà in perfetta armonia con la natura pseudoromantica di Vida. Saltellava sul posto, per poi correre da un foglietto all’altro, cercando di trovare il filo logico rappresentato dai singoli frammenti della storia di Vida. In lontananza si sentiva l’Arabesque di Debussy. Lui non lo sentiva perché nelle orecchie gli risuonava a tutto volume la musica dal telefono, e nella testa il coro delle frasi di Vida. Quelle frasi pesavano sulla sua coscienza come una caption da social network che rimane impressa insieme allo stimolo visivo che accompagna. Tutte quelle voci, quei toni, interni ed esterni, si affievolivano mentre aumentava il ritmo della suoneria che prendeva la forma sempre più chiara di una marcia militare.
Il Frammentatore chiama
I figli di notti maniacali
Il Frammentatore digrigna i denti
Urla nel mezzo della notte
Il Frammentatore è dislessico
Le sue sinapsi formano sillabe nuove
Il Frammentatore ha dei tic
Il Frammentatore va a caccia di tempo
Il Frammentatore inghiotte le virgole
Il Frammentatore è un’emoji
Il Frammentatore vale uno sproloquio
Il Frammentatore rompe le dita
Il Frammentatore ama fare rime
Anche se non sa contare
Il Frammentatore fa rutti potenti
Mentre un tumore si ingrossa nel cervello.
Il Frammentatore inventa nickname
Il Frammentatore nemmeno esiste
Il Frammentatore ama le cose strane
Il Frammentatore è My Love Story
Non ho tempo per la poesia adesso! Non ce l’ho! Gridò tra sé e sé, senza capire nemmeno lui perché il tempo gli sfuggisse costantemente di mano. Cos’è il tempo ben speso? Finora l’ha soltanto cercato, oppure l’ha correttamente usato?
Ciò che non gli era chiaro era il motivo del loro impelagarsi in quella presunta associazione. Erano spie o membri di qualche servizio di intelligence? In tal caso, erano noti alla nostra polizia? Oppure erano turisti fuori di testa desiderosi di un brivido senza senso? Era possibile sollevare un polverone attorno ad agenti di altre organizzazioni? Può essere che un compagno della ragazza abbia chiamato la polizia, è davvero così? È una cosa assurda, una paranoia.
Principio maschile e femminile, “Il braccio d’oro”, l’acconciatura, Tenerife, il Marocco, chi ne verrà a capo?
Sentì un’improvvisa necessità di penetrazione. Era arrivata tutto a un tratto, come un pensiero antistress. Non da attivo, ma da passivo. Non ricordava di aver mai pensato al pegging prima di allora, ma adesso provava il bisogno indescrivibile di essere penetrato da una donna. Principio maschile e femminile.
Mandò un messaggio al proprietario del locale bear, chiedendo dove potesse trovare un club di dominatrici in città, per l’indagine, ovviamente.
Prima di sera “googlò” come si sarebbe dovuto preparare alla cosa e, dopo il lavaggio e il clistere, si avviò verso il luogo concordato.
Chiese alla ragazza di poterla chiamare Vida. Mentre lei gli girava intorno, nella foga dell’eccitazione, le disse:
«Tu eres mi Vida».
«Basta parlare. La vida adesso ti fotte», rispose lei.
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23 dicembre 2014, Diario de Vida
I kayak passavano sotto al ponte con i cerchi e se ne andavano verso l’orizzonte di Siviglia fregiato dal crepuscolo. Sull’erba della riva opposta stavano sdraiati o si allenavano coloro che desideravano approfittare di ogni minuto di sole a disposizione. Su una barca c’era un uomo con un’urna, un gatto e una borsa patchwork. Voleva gettare le ceneri della defunta moglie Soledad nel Guadalquivir, ma pensava che la calura di Siviglia non fosse adatta come domicilio eterno per i resti della triste e cupa compagna di vita di un tempo. Decise, allora, di andarsene e di rovesciare le ceneri nel lago Bajkal.
Senza curarsi di tutto ciò, 24 ciclisti attraversarono il ponte a caccia di corone dell’Avvento, il cui periodo era già passato.
Non può aspettare, deve essere produttivo. Con lo zaino sulle spalle, 24 chiamate perse e decine di messaggi non letti, mail e notifiche, vagava per Siviglia con una missione non del tutto chiara. Chiedeva a ogni persona di indicargli un negozio da barbiere per tagliarsi i capelli, sistemarsi la barba, con gli abiti slargati per l’uso troppo frequente, tutto sgualcito, a causa delle possibilità limitate che una valigia da viaggio poteva offrire. Passava da una parte all’altra della città per sondare il terreno, ma, quando si rivolgeva alla gente, spesso veniva cacciato via dai negozi di barbieri, sentendosi dire che erano chiusi, che c’era la siesta, che si avvicinava il giorno di festa, che avrebbero chiamato la polizia. Stava perdendo tempo con quella storia dell’associazione segreta di barbieri che governano il mondo, ed era disperato, ma quella diffidenza dei parrucchieri del posto alimentava in lui una nuova idea paranoica.
L’ano gli faceva male dalla sera prima e ogni volta che si sedeva prendeva dolorosamente coscienza dell’esperienza vissuta. Per questo non faceva molte pause e girava per Siviglia.
In Piazza Macarena fu sopraffatto da una stanchezza mortale. Gli venne in mente la terribile hit degli anni Novanta e si sedette per riposare. Il sole lo colpiva direttamente negli occhi, perciò doveva tenerli chiusi e assorbire quella fonte gratuita di vitamina D. Quando li aprì, vide attraverso il bagliore la Morte e i Los del Rio che giocavano a scacchi nella piazza. Bergman, oddio, da dove salta fuori questo cartellone? Aspetta, ma è un cartellone? Vedeva un’immagine in movimento, non il soggetto statico di una pubblicità, e all’improvviso tutto nella piazza si fece silenzioso e lui rimase solo con quella scena, che era un pezzetto in bianco e nero all’interno di un paesaggio a colori. La Morte vinceva e iniziava la sua danza, ma non era più una cosa così poetica, la Morte ballava la Macarena con quelli che portava con sé.
Now don’t you worry about my boyfriend
The boy who’s name is Vitorino
I don’t want him, couldn’t stand him
He was no good so I
Now come on, what was I suppose to do
He was out of town and his two friends were so fine
Come find me, my name is Macarena
Always at the party con las chicas que estan buenas
Come join me, dance with me
And all you fellas chat along with me
Nell’entusiasmo orgiastico della melodia trash, continuavano a ballare la macarena, ripetendo i versi e la coreografia ancora e ancora, girando su se stessi e facendo movimenti goffi in ogni direzione. Non riuscite neanche a lasciare Bergman in pace, e non potete infangarlo in modo così basso. Lentamente lo circondavano, stringevano il cerchio della danza attorno a lui. Niente è sacro per voi, non è vero? Viktor stringeva lo zaino, lo apriva per prendere le forbici e tentava di scacciare la visione con movimenti minacciosi, poi cercava di tagliare via il riquadro bianco e nero, come se fosse un pezzo di stoffa. Nei goffi tentativi di pugnalare il nemico invisibile, pugnalava le sue stesse cosce, indifferente al dolore e alle macchie di sangue che si allargavano inesorabilmente, silenziose come le metastasi con cui si avvicinavano i messaggeri muti di una calamità.
Perché è tutto così amplificato? Com’è fatto questo trash? Questo non è trash, questo è metatrash. No, questo è ipertrash. IPERTRASHREALISMO, in cui tutte le intertestualità di questo mondo sono mischiate in un’unica gigantesca sovrastruttura che si erge come un grattacielo iperrealistico. In essa sono compresse tutte le saggezze di questo mondo, i miti di tutte le civiltà, le fantasie dei brevetti, le idee futuristiche, i versi di Marina Tucaković, le ricostruzioni unghie, le televendite, gli aspirapolveri Kirby, gli spot di MTV, il kitsch dei costumi camp, gli usi pagani, l’ateismo e le croci greche, gli apparecchi Bang & Olufsen e le paperelle di plastica, tutte le cazzo di svendite di questo mondo, le attrazioni turistiche, lo smog, i pozzi petroliferi, le supernove e le repliche delle sitcom americane. Tutto si comprime, muore, si allunga come una gomma da masticare in questa sovrastruttura, tutto vibra, dal film neorealista rumeno al pen pinapple apple pen virale. Tutto è un reciproco masticarsi e vomitarsi, tutto si mischia, si mescola e scivola nel pantone dell’entropia della carica emotiva. Anche tu sei invischiato in questa struttura, e se sei fortunato costruisci delle barriere dietro alle quali isoli le tracce di un impasto omogeneo, i tuoi piccoli microuniversi in cui la realtà è uniforme, modellata a tuo piacimento. Finché non ti si infila il cazzo dei media e ti ricorda che sei una parte dell’ipertrashrealismo, non importa quanto tu ti sia nascosto dietro alle barriere del contenuto filtrato sull’homepage di Facebook, di AdSense e delle affinità elettive della tua cerchia di amici. Nessuno è puro nell’epoca dell’ipertrashrealismo, nessuno è coerente nella sua pedanteria, tutti sono contaminati e tutti contribuiscono alla catastrofe ecologica che questa sovrastruttura impone all’Habitat di Safdie, mentre si ingrossa tra i suoi cubi ben progettati.
Si lasciò cadere su una panchina e iniziò a piangere, stringendo forte le forbici tra le mani. Quando il suo corpo si calmò, e i dotti lacrimali si prosciugarono, dandogli pace, comprese che era tutto una conseguenza della stanchezza e della depressione post-sesso. La notte precedente aveva definitivamente perso la verginità, per la seconda volta.
Completamente rilassato, non poteva più ignorare l’evidenza. Doveva trovare un modo per disinfettarsi le ferite. Zoppicò fino a casa e versò una bottiglia di vodka su uno degli stracci puliti della cucina.
Lo passò sulle ferite. Bruciava.
Il Frammentatore geme. Il Frammentatore è teso. Arriva la quiete.
Prese la carta igienica e la avvolse attorno alle cosce nei punti delle pugnalate. La carta era di qualità abbastanza buona per resistere. Posizionò lo scotch in maniera perpendicolare alla fasciatura per fissarla. Bevve un po’ di vodka per calmarsi. I jeans sono a posto, comunque ora gli strappi vanno di moda. Andiamo avanti.